di Marika Poletti
I dati non sono allarmanti, sono agghiaccianti. Proiettando per il futuro l’andamento demografico attuale, nel giro di 40 anni gli italiani passeranno dagli attuali 61 milioni a 45. Saremo decimati come se non peggio delle vittime di una guerra mondiale.
Non solo. Nello stesso lasso di tempo la popolazione africana continuerà ad aumentare, trovando sempre più come sponda di appoggio le nostre coste del Mediterraneo. Immigrati di seconda o terza generazione si uniranno ai progressivi arrivi, di fatto cambiando in modo indelebile casa nostra, così come ce l’hanno lasciata i nostri nonni.
A fronte di questo fenomeno, noto da moltissimo tempo ma mai preso seriamente in considerazione, la Commissione Europea si è espressa invitando gli Stati del Vecchio Continente a porre in essere una serie di azioni finalizzate a ripopolare l’Europa. Ma come? Soprattutto incentivando un efficiente sistema di accoglienza ed integrazione degli immigrati, vero utero produttivo per il futuro.
Sembrano essere, queste, le premesse per un -peraltro banale- romanzo apocalittico ma purtroppo è la cocente realtà.
Che vi sia o meno un qualche qual sorta di strategico piano sovranazionale per distruggere la nostra identità non è aspetto su cui concentrarsi ora ma appare molto chiaro che, guardando al rovescio della medaglia, non vi è alcun disegno politico finalizzato ad incentivare un rifiorire demografico italiano.
Del resto come potrebbe esser altrimenti in uno Stato, come il nostro, in cui viene offerta ogni forma di agevolazione ad una donna che intende abortire ma ben poco si fa per permetterle di far nascere un figlio? Usciamo dal concetto di “incentivo” alla nascita. Un bambino non lo si mette al mondo per poi riscuotere un benefit. Non è necessario -e non sarebbe nemmeno giusto- “invogliare” a far nascere un figlio alla stregua di un marketing culturale: basterebbe metter le famiglie nelle condizioni di non guardare ad un nuovo nato come ad un lusso.
Secondo quanto riportato dall’Osservatorio Nazionale sulla Famiglia, il 61% delle coppie italiane ha un figlio in meno rispetto a quello che desidererebbe. La ragione profonda della crisi demografica che stiamo affrontando è palesemente dovuta a fattori esterni alla famiglia e sono ritrovabili in un complessivo contesto di incertezza sociale e precarietà economica che portano l’età media di una madre italiana a superare la soglia dei 30 anni ed hanno piegato l’indice di fertilità ad 1,3 figli a per donna.
Quando sai di diventare mamma, la prima cosa che cerchi è una miglior organizzazione del tempo per poter conciliare l’impegno lavorativo con le necessità della famiglia che si allarga. Quando una donna non trova la possibilità di ottenere questo, spesso si licenzia e comunque sarà indotta a pensarci bene prima di affrontare un’ulteriore gravidanza. Un piano politico su questo tema è certamente complesso, tocca tantissimi aspetti diversi e, per sua natura, non può essere affrontato in una così breve analisi. Nondimeno si devono individuare i capisaldi da cui partire.
Il principale discrimine è la differenza tra ciò che è immutabile ed i fenomeni regolabili dalla struttura sociale. Nel caso specifico, l’evoluzione psico-fisica di un bambino è qualcosa che prescinde dalla volontà politica mentre la legislazione sul lavoro e le politiche sociali sono modificabili. In altre parole: il bambino necessita della figura materna fino ai 10 mesi in modo pressoché esclusivo? Allora sulla base di questo dato di fatto, su questo tracciato evolutivo biologico devono esser disegnate le politiche sociali ed occupazionali. Una donna ha il diritto di essere una buona madre, per essere più espliciti, di un bambino sereno.
Altra differenza sostanziale da avere ben chiara è il discrimine tra i diritti dell’uomo e quelli del cittadino. Uno Stato e le sue amministrazioni per i servizi sociali ed incentivi occupazionali devono avere come interlocutore principale -quando non unico- il cittadino italiano. Questo non è discriminatorio. E’ semplicemente giusto. Sulla base di tale principio possono essere riorganizzate le graduatorie per gli accessi ai servizi, inserendo come criterio l’essere italiani e la lunga residenza sul territorio nazionale, anche oltre la soglia dei 10 anni necessari per far richiesta di cittadinanza.
Si può e si deve fare.
Da La Spada di Damocle n. 2 – Settembre 2015