Quando la vita è una merce

di Marika Poletti

“Utero in affitto” è per Sergio Lo Giudice, Senatore del PD, un termine odioso che dovrebbe esser cancellato dal vocabolario. Secondo lui sarebbe preferibile utilizzare il concetto di maternità surrogata o direttamente omogenitorialità. Del resto la sua è una posizione interessata essendo il primo politico italiano ad aver avuto un bambino assieme al suo compagno -sposato all’estero- tramite questa pratica. Accanirsi contro i termini ha il significato sostanziale di voler nascondere la verità delle cose: si sta parlando di far nascere una vita in laboratorio, scegliendo gameti in appositi cataloghi di “donatori”, eventualmente unendoli ai propri, e selezionare una donna dentro il cui utero la gestazione avrà luogo per poi strapparle il bimbo al primo vagito.

Ad una persona dotata di una normale soglia di civiltà, idee come l’utero in affitto dovrebbero apparire come a dir poco criminali. Purtroppo siamo di fronte ad una pesantissima mistificazione della verità che coinvolge in modo organico tutte le agenzie formative ed i mezzi di comunicazione.

Basti pensare che tale pratica viene fatta passare come normale e conforme ai crismi del progresso, approccio suffragato addirittura da strumenti pedagogici quali molti dei libricini che finiscono nelle nostre scuole che spiegano agli alunni sin dalla fascia 3-6 anni come due lesbiche possono comprare il “semino da un signore gentile”. Tutto pur di negare l’evidenza dei fatti.Quindi focale è la necessità di tornare ai fatti. Alla verità. Alla concretezza.

L’utero in affitto, strumento principe per le coppie gay o trans per avere un figlio, è una pratica abominevole di per se stessa non solo quando gli acquirenti sono omosessuali. Il bambino è una merce e come tale viene trattato. Dal catalogo direttamente a casa tua. Sono sufficienti un paio di minuti per trovare sul web tutte le informazioni utili per acquistare un bambino: sfogli direttamente in rete l’album fotografico delle donne da cui comprerai gli ovuli (alcuni siti riportano anche le immagini dei figli naturali delle “donatrici” così da rendere più chiare all’acquirente le potenziali fattezze del figlio che ne uscirà) e scegli l’offerta d’acquisto più adatta alle tue esigenze (si passa dalla formula “Bimbo in braccio” che ti garantisce al 100% la nascita di un frugoletto al “Pacchetto economico” in cui la clinica sottopone la donna a soli tre impianti, falliti i quali dovrai comprare un altro servizio).

La merce (il bambino) ovviamente non deve essere difettata. Quando il compratore stacca l’assegno, il bimbo deve essere bello ed in salute. Altrimenti salta l’affare. Ne è un triste esempio la storia del piccolo Gammy, bimbo concepito con utero in affitto nato Down ed abbandonato dalla ricca coppia acquirente. Al terzo mese dal concepimento viene certificata la sindrome delle trisomia 21 ad uno dei due gemellini comprati ed i futuri “genitori” impongono un aborto selettivo. La donna affittata porta a termine la gestazione di entrambi i bambini ma la legge è dalla parte del cliente: la coppia si prende il bambino sano e non ritira il fratellino. Tutto normale: se è una merce, chi ritirerebbe pagando un oggetto rotto?

Il cliente ha anche la possibilità di recedere dal contratto, pagando una penale. Questo è il caso della conduttrice televisiva americana Sharri Shepard che, avendo divorziato durante la gestazione tramite utero in affitto, si è potuta liberare del piccolo perdendo la caparra versata al momento della sottoscrizione maggiorata di una piccola cifra aggiuntiva.

Ce la spacciano per modernità. Vogliono persuaderci che questo è il giusto viatico nella lotta alla discriminazione. Ci spiegano che è necessario procedere su questa strada per concedere a tutti il diritto ad avere un figlio. Che dicano quello che vogliono ma rimane e rimarrà sempre un atto contro l’umanità.

 

Da La Spada di Damocle n. 3 – Ottobre 2015

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