di Marika Poletti
Gli Europei di calcio sono nel vivo e tutto viene declinato su di essi: dal supermercato che ti offre un’ampia scelta di cibi precotti per accompagnare le serate casalinghe davanti alla tivvù al Governo che approfitta dell’ubriacatura generalizzata per far passare il decreto salva banche.
Un torneo analogo però offre anche un’occasione per lanciare le più disparate analisi sociologiche prendendo le mosse dalla composizione delle squadre in campo.
Arriva così il pippolotto terzomondista del Corriere della Sera nel quale viene spiegato che la nostra nazionale di calcio è troppo poco multirazziale rispetto alle altre grandi potenze in campo, come Germania, Francia, Belgio e Svizzera. In altre parole, secondo il giornalista, noi non possiamo sfoggiare una “vetrina del carattere multietnico” della nostra società perché i convocati da Antonio Conte sono in massima parte “indigeni” (che poi… saremmo noi italiani) e di oriundi (sudamericani di ceppo italiano). Ovviamente l’articolo esprime una sua morale, in cui viene presentata al lettore come indispensabile una nuova legge per estendere la cittadinanza agli stranieri per scongiurare il sentimento di frustrazione di cui questi ultimi soffrirebbero vivendo sul nostro territorio.
C’è chi, però, con tutta semplicità fa emergere un altro messaggio, un altro segno distintivo.
“Nella Polonia solo polacchi. No ai naturalizzati ed apriamo scuole di calcio in tutto il paese” queste sono le dichiarazioni del Presidente Boniek che hanno destato lo sdegno del Corriere dello Sport. Approccio sicuramente controcorrente quello della Polonia in un mondo in cui si procede alla naturalizzazione più o meno indotta degli atleti che si vogliono acquisire creando, più che una squadra, un frittomisto su ordinazione. Ancora più stridenti, in questo contesto, sono le semplici parole utilizzate da Boniek per spiegare tale scelta: “Si chiama recupero e salvaguardia della nostra identità, è un atto di rispetto verso il nostro popolo“. Dubito possa esser detto meglio.
Ed una prova di identitarismo è stata data dall’Islanda, squadra che prima di mandare a casa a pedate la grande e multietnica Inghilterra, battendola nello spirito prima ancora che sul campo, ha richiamato un antico rito vichingo assieme ai propri sostenitori.
In tempi di brexit, commissioni europee e generazioni-Erasmus, vedere gli atleti di un piccolo Stato, tutti fieramente connazionali, creare un clima di profonda omogenità culturale, un idem sentire tra concittadini, è quello che personalmente chiamo riproposizione mitopoietica di una squadra che rappresenta fieramente il popolo di cui è espressione.
A ben vedere non tutto è stato diserbato: qualche spiraglio di identità europea vive ancora.