di Rosanna Lucca
Parlare di vestiario, stile ed eleganza potrebbe sembrare una frivolezza in un contesto come quello attuale, in costante crisi economico-sociale e sempre sull’orlo di una tragedia bellica. Ci rifiutiamo, però, di adottare la lente di giudizio apocalittico o, per meglio dire, da concorso di bellezza in cui alle candidate tanti più punti vengono conferiti quanta maggiore è la loro sciocca propensione alla “pace nel mondo”. Tutto ha una sua importanza che non può essere scalfita dalla congettura del “vi sono cose di maggior rilevanza”.
Quanto detto vale a maggior ragione se consideriamo che abbiamo passato metà estate a trastullarci nella discussione “burkini sì/burkini no”, in cui i crociati del no si ergevano a moderni censori contro la pelle coperta delle donne in spiaggia, sostenendo che i centimetri di tessuto fossero direttamente proporzionali all’offesa arrecata contro la cosiddetta cultura occidentale.
Deve esservi stato un momento nella storia contemporanea in cui abbiamo deciso di sostituire il concetto di sensualità con nudità, di fascino con volgarità. Questa considerazione deriva da una banale osservazione, quasi da albero genealogico, facilmente riscontrabile in qualsiasi casa italiana: basta aprire l’album fotografico della propria famiglia per osservare quanto le nostre nonne fossero vestite di tutto punto. Non importava fossero contadine o stimate madri di famiglia al fianco del notabile del paese: si mostravano sempre al meglio delle loro possibilità, linde, curate e con quella raffinatezza che dovrebbe contraddistinguere una donna.
Prima del dilagare del trash anche destinato alla terza età, si poteva osservare questo anche dal vivo, notando come molte signore over 65 sapessero bene come abbinare, anche per andare al mercato della frutta e verdura, la giusta lunghezza della gonna ad un bel paio di guanti.
Noi saremo forse gli ultimi a poter mostrare le foto della nonna dicendo ai presenti “guarda che bella donna che era!”
chiusa in una gonna a ruota che le strizzava la vita ed evidenziava il seno, senza metterlo in vetrina, con i capelli raccolti ed i sandaletti estivi. Donne che esprimevano una sensualità dirompente, nulla a che vedere con certi arnesi che girano liberamente nelle nostre strade ora, così volgari che non riuscirebbero a risvegliare istinti nemmeno in un ergastolano evaso dopo decenni di galera.
La questione, infatti, non è la nudità in sé ma la volgarità.
“Una donna dovrebbe essere due cose: di classe e favolosa.” disse Coco Chanel, icona di stile ed eleganza, femmina che non aveva bisogno di certo di farsi foto con la bocca a “culo di gallina” (ci scuserete il francesismo ma così viene chiamato in gergo) per sentirsi donna.
La modernità porta con sé un pregiudizio: più sembri uno scarto di macelleria, con cosce e petto disossati e posti in bella mostra sul bancone, più puoi essere ricercata, arrivando a veri e propri obbrobri come le due perfette sconosciute che hanno calcato il red carpet della Biennale di Venezia in questi giorni, con tanto di “bernarda” al vento.
Siamo oltre la tanto discussa farfallina tatuata di Belen. A Venezia abbiamo toccato il recinto della visita ginecologica, riducendo tutto ad un contesto sciatto, sudicio e da ambulatorio di terzo ordine tanto che le attenzioni di coloro che hanno assistito alla scena non sono state rivolte verso la presunta forza erotica delle due signorine ma sull’osceno segno dell’abbronzatura e su quanti giorni fossero passati dall’ultima depilazione inguinale prima di indossare malamente quegli indumenti.
Poi, per carità, siamo tutti emancipati tanto da poter decidere di agghindarci come ci pare, ma così facendo dimostriamo solo di saper usare questa libertà per erodere in modo totalmente autonomo la nostra dignità.
Secondo me, spesso si tende a confondere l’essere ben vestiti con l’essere ben SVESTITI. Mi spiego meglio. Oggi molte ragazze, per sentirsi alla moda, scoprono più che possono il loro corpo. In realtà, però, non è mettendosi in mostra che si è vestiti bene.
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