Petrolio di contrabbando dell’ISIS

di Gianni Stoppani

Provate ad immaginare una colonna di autocisterne, parcheggiate a pochi centimetri l’una dall’altra e che dalla tangenziale di Trento giunga sino a Levico. Una interminabile colonna di camion lunga 25 chilometri circa che se contati uno ad uno vi darebbe la cifra di 1500 TIR.

Perché è questo più o meno il totale dei camion distrutti sino ad oggi dai raid aerei russi, che in poco meno di tre mesi hanno di fatto azzerato la capacità dell’ISIS di ricavare enormi profitti dal contrabbando di petrolio dalle zone poste sotto il suo controllo. E se la macchina mediatica a firma americana ha ancora una volta dato il meglio di sé diffondendo qualche tempo fa per ogni dove le immagini del bombardamento della “banca” dove i tagliagole islamici – che da bravi musulmani non usavano certo conti correnti, bonifici o altre diavolerie occidentali, ma sempre e solo il buon denaro contante, alla faccia di Visa e Mastercard- rimane il fatto che solo con l’intervento russo si è finalmente posto un freno effettivo al contrabbando di prodotti energetici da parte dei terroristi dell’ISIS per finanziare la propria guerriglia armata.

Forse allora che i russi hanno quindi scoperto ciò che la coalizione a guida americana bellamente ignorava? Difficile da credere, perché se gli USA a guida Obama hanno toccato forse il punto più basso nella recente storia USA e l’incapacità complessiva dell’amministrazione americana ad ogni livello sia esso politico, strategico o militare si è rivelata nel tempo di dimensioni tali da lasciare francamente perplessi, rimane il fatto che il contrabbando di greggio era cosa assai ben nota, e nascondere una petroliera non è certo come imboscarsi sotto la giacca una stecca di sigarette quando tornate da Livigno, che diamine!

Proviamo allora a fare un po’ il punto della situazione, a raccogliere le idee e a mettere insieme le informazioni per provare a dare un quadro un po’ più completo e magari anche esterno a certi schemi che da sempre caratterizzano i media italiani e da cui la Spada di Damocle intende, come più volte ribadito, differenziarsi.

In Siria infatti per lunghi mesi i terroristi, con l’aiuto più o meno volontario di personale specializzato, finanzieri d’assalto occidentali e gente locale pronta a chiudere un occhio -o magari entrambi per motivi religiosi, economici o per semplice paura- hanno continuato a pompare petrolio e gas naturale dai giacimenti siriani e irakeni di cui si era impadroniti, riparando i danni – pochi in verità- occorsi agli impianti durante gli scontri armati e stipulando accordi per contrabbandare la materia prima estratta principalmente dal Kurdistan irakeno, di eccellente qualità e quindi di ottimo valore sul mercato.

Una situazione, come detto, che non è certo sfuggita ai pragmatici servizi segreti americani, per quanto la guida politica USA sia ormai imbolsita dalla vuota ideologia dello “Yes We Can” che nulla significa ma che fa tanto trendy, tanto che già ad ottobre 2014 il sottosegretario al terrorismo e l’intelligence finanziaria USA David Coen dichiarò che “intermediari, commercianti, raffinatori, aziende di trasporto, e chiunque altro gestisca il petrolio dell’Isis devono sapere che siamo al lavoro per identificarli e abbiamo a portata di mano gli strumenti per fermarli“.

Ed emerge dalle analisi dell’intelligence occidentale, da cui iniziano finalmente a filtrare i primi dati, che sempre più chiaramente vi è stato un pesante coinvolgimento di una serie di compagnie occidentali le quali non hanno disdegnato certo di fare affari con il Governo Regionale Curdo che è riconosciuto da Baghdad, ma accordandosi eventualmente anche con compagnie turche per ottenere più facilmente contatti in loco e chiudendo poi anche loro magari un occhio sulla provenienza effettiva dei vari carichi di greggio su cui vive e prospera una massa enorme di mediatori, società d’affari, petrolieri più o meno legittimi e mezzani di ogni tipo. Sullo sfondo il governo turco di Ankara guidato da Erdogan, che una teutonica corrente di pensiero vorrebbe addirittura fare entrare a pieno titolo in Europa, e però anch’esso sempre più pesantemente coinvolto nel supporto a gruppi terroristici di matrice islamica, sia nei paesi vicini che nell’area del Mediterraneo come il recente bombardamento di una nave mercantile turca che trasportava armi per i ribelli islamici libici sembra confermare, e che per mesi ha appoggiato, traendone profitto, il passaggio del greggio e del gas sul proprio suolo nazionale. Tra i principali attori occidentali coinvolti vi è la società anglo-turca General Energy, il cui amministratore delegato è nientemeno che Antony Bryan Hayward, ex Direttore generale di British Petroleum, ossia la stessa compagnia petrolifera che causò il disastro ecologico nel Golfo del Messico il 20 aprile del 2010, seguita nel lucroso business dalla compagnia privata inglese Gulf Keystone e dalla norvegese DNO, mentre allo sfruttamento delle risorse energetiche dell’area partecipano anche la Dana Gas e Crescent, entrambe compagnie degli Emirati Arabi Uniti cui si unisce il Consorzio Pearl, costituito dalla stessa Dana Gas, l’austriaca OMV e l’ungherese MOL.

Tutte accordatesi negli anni scorsi con il governo regionale curdo-irakeno (KRG-Kurdistan Regional Government), il quale dal canto suo rilascia regolari documenti di trasporto per i carichi di greggio in transito nel territorio turco. Accordi così lucrosi per tutti al punto da fare assumere anche nuova luce al pesante intervento finanziario e militare contro il governo di Damasco che attualmente stanno sostenendo gli Emirati Arabi, finanziando ed armando gruppi curdi ribelli come l’YPG.

Lo sfruttamento dei giacimenti ruota però essenzialmente sul permesso accordato dai turchi al passaggio di autocisterne che dal Kurdistan, i cui confini dovrebbero peraltro essere bloccati al transito, raggiungono invece i porti di Dörtyol e Mersina nell’Anatolia meridionale, immediatamente sopra al confine siriano e in cui il greggio viene caricato su petroliere di medio tonnellaggio che poi fanno rotta su Cipro, al largo delle cui coste avviene il trasbordo su navi gestite da operatori come Mocoh, Trafigua e Petraco che lo trasportano poi anche in Israele direttamente alla raffineria di Haifa.

Tutto pulito e legale, con le transazioni finanziarie che avvengono su conti esteri difficili da tracciare, mentre Israele non va tanto per il sottile per il proprio rifornimento energetico per il quale dipende completamente dall’estero tanto che, fatto poco noto, uno dei punti principali degli accordi di Camp David del 1978 prevedeva proprio la fornitura di petrolio a prezzo calmierato da parte dell’Egitto, un accordo in piedi ancora oggi.

Intendiamoci, non stiamo affermando che Israele tratta con l’ISIS le forniture di petrolio, tutt’altro. Ma con le risorse di intelligence a sua disposizione, e i tradizionali legami tra Israele e i curdi – cui gli israeliani praticamente da sempre forniscono armi e supporto – appare assai difficile affermare che Tel Aviv non sia a conoscenza della provenienza effettiva del greggio, così come non lo ignorano certo le compagnie petrolifere che alle loro raffinerie vedono arrivare i carichi.

Con il Governo Regionale Curdo sono stati poi stipulati anche accordi di prospezione petrolifera e ricerche al fine di individuare nuovi giacimenti da sfruttare, anche se la situazione, tutt’ora definita “fluida” dagli osservatori, ha al momento praticamente bloccato i lavori. In questo contesto, sfruttando i contatti degli operatori residenti nelle zone cadute sotto il controllo dei terroristi dell’ISIS, si è continuato ad estrarre greggio e gas che come detto viene trasportato con autocisterne ai punti di imbarco. Peraltro la campagna di bombardamenti delle strutture petrolifere sul suolo siriano e irakeno è stata assai selettiva e mirata, cercando di risparmiare gli impianti quando non era strettamente necessario colpire. E con i terroristi che hanno messo a punto raffinerie “modulari”, ossia impianti che hanno il vantaggio di poter essere montati e smontati secondo le esigenze e che almeno sino all’intervento russo hanno costituito la base di una delle principali fonti di reddito. Una tattica peraltro non nuova in tutte le parti del mondo dato che, a titolo di esempio, l’unica struttura rimasta pressoché intatta e mai colpita da nessun contendente durante i furibondi combattimenti in Cecenia nel corso degli anni ’90 e 2000 è stata proprio e sempre la raffineria di Grozny.

Una situazione che quando un nuovo, imprevisto attore – la Russia- è comparso infine sulla scena ad occupare quello spazio geo-strategico lasciato vuoto dall’amministrazione Obama, cui evidentemente tale concetto continua a sfuggire, e che era deciso a fare sul serio, ha di fatto portato quindi all’eliminazione del vero punto debole di tutto il sistema, ossia la rete di trasporto cui accennavamo in apertura e in particolar modo delle zone di concentrazione dei convogli di autocisterne in territorio siriano, che i Sukoi 24 di Mosca hanno bombardato a tappeto notte e giorno dopo averli individuate con i droni. Veri e propri “bombardamenti d’area” a cui si sono affiancati anche bombardamenti assai più selettivi fatti con bombe a guida laser e missili, assai più costosi e che l’aviazione russa utilizza sempre in maniera più oculata di quella americana, diretti a distruggere gli enormi serbatoi metallici posti a fianco dei pozzi petroliferi senza danneggiare però questi ultimi, come peraltro specificatamente richiesto da Assad.

Ma se le compagnie occidentali che operano nell’area si sono quindi viste costrette obtorto collo a ridurre le estrazioni negli ultimi tempi, peraltro anche in virtù dei mancati pagamenti delle prospezioni petrolifere da parte del governo regionale curdo, chi si è visto maggiormente inaridire il flusso di petrodollari a seguito dei bombardamenti e soprattutto della perdita di terreno è stato il gruppo terrorista dell’ISIS, che anche a seguito di ciò ha quindi pensato bene di iniziare a distruggere i siti archeologici al fine di venderne i pezzi sul mercato nero delle opere d’arte oltre che poterne ricavare un indubbio colpo propagandistico, perlomeno sul breve periodo. Ma le opere d’arte richiedono più tempo per essere vendute, e sono più tracciabili. Soprattutto, non sono disponibili in grandi quantità come il petrolio o il gas. Con una guerra che ancora adesso sta costando all’ISIS circa 1 milione di dollari al giorno bisognerà perciò vedere quanto il gruppo terrorista riuscirà a resistere via via che le fonti di finanziamento si andranno esaurendosi, e non è un caso che il suo attuale obiettivo, almeno secondo i servizi occidentali, siano ora i giacimenti petroliferi libici.

dalla Spada di Damocle – Giugno 2016

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