di Marika Poletti
Lessi da qualche parte che essere seguito su Facebook equivale ad essere ricco a Monopoli: battuta, questa, che sagacemente riporta tutto nell’ordine naturale delle cose, a come dovrebbero essere, ma che non racconta in toto le vere dinamiche che si instaurano tra il mondo virtuale e quello reale.
I social network non sono più concepibili come un gioco di ruoli, una sorta di “second life” all’interno dei cui anfratti ricreare delle situazioni inarrivabili o, più semplicemente, alternative alla vita di tutti i giorni. Non vi è più, detta in altri termini, uno scollamento tra la piazza virtuale e la propria esistenza: i social hanno assunto una presa così viscerale da divenire parte integrante delle discussioni e delle relazioni umane. Alla piazza reale ne abbiamo affiancata una surreale, una realtà che si presenta come umanamente imbarbarita ma utilizzante strumenti tecnologici all’avanguardia.
Trascorrendo una sempre più impegnativa fetta di tempo sul web, lasciamo molte tracce di noi in quella dimensione e non sempre ce ne si rende conto.
A differenza di quanto si potrebbe immaginare di primo acchito, quanto detto coinvolge tutte le fasce generazionali, dai ragazzini che stanno per concludere le scuole elementari agli anziani.
Senza pretesa di assolutismo, però, si riscontrano atteggiamenti diversi tra le due macro-categorie di utenti: i giovani e gli over 50. Mentre per i primi, infatti, avere un cellulare in mano da utilizzare per svago ed attività che non attengono alla sfera professionale è assolutamente la norma, per i secondi le cose sono diverse. Dopo aver raggiunto l’età matura senza accesso ai social e scoprendo questo nuovo mondo quando la consuetudine ne ha già reificato i comportamenti, molti di loro credono di poter vedere nel pc e nel proprio smartphone le chiavi di accesso per il paese del Bengodi, dove dare libero sfogo a quello che nel mondo cosiddetto reale non avrebbero potuto fare con tale scioltezza. Sono, detta in altre parole, degli sprovveduti ontologici che lasciano tracce di sé come Pollicino lasciava le briciole di pane. E ne lasciano tante di più proprio in tutti quegli ambiti che vorrebbero, invece, tenere celati: ludopatia, tradimenti coniugali, perversioni di vario genere. Tracce, queste, facilmente individuabili dal fiorente settore dell’informatica forense o dell’investigazione privata.
L’età pre-evolutiva è invece il periodo nel quale l’utilizzo dei social può assumere risvolti molto più dolorosi. Se per gli adulti si rischiare un divorzio – ed i dati riportano che oltre il 30% delle separazioni partono proprio da scappatelle sul web -, i ragazzini sono molto più intimamente permeabili. Qui però non farò accenni alla pedofilia on line, fenomeno che meriterebbe una seria analisi a parte. Lo schiavismo che si instaura nei giovani e giovanissimi è strettamente collegato all’autostima ed al confronto. I social pongono su di un piano numerabile il seguito e le reazioni positive o negative che un aspetto di sé produce all’esterno. Piaccio? Non piaccio? Quanto piaccio? Quale aspetto o parte di me piace di più? Questi sono interrogativi a cui un adolescente può rispondere tramite la contabilità dei vari “mi piace”, stelline o cuoricini che siano. Introdotto nel tritacarne del consenso social, il giovane è sottoposto alla tentazione di assumere comportamenti che il gruppo di controllo -la giungla del web- dimostra di apprezzare e portarli all’estremo. La pressione di conformità rispetto al modello imposto è un elemento che non deve essere sottovalutato soprattutto quando si ha a che fare con individui la cui costruzione dell’apparato cognitivo è ancora in essere e che soprattutto non hanno raggiunto ancora una stabilizzazione della propria intelligenza emotiva, quella che ti permette una più equilibrata valutazione di sé e delle relazioni con il mondo esterno.
Questi ragazzi paiono aggrappati ad un filo di lana ed alla fonte delle loro frustrazioni è proprio quell’oggetto – “Oh, my precious!” – a cui si approcciano come fossero Gollum con l’anello. Quell’ombra se la portano sempre in tasca ovunque vadano.
Non a caso, recenti ricerche -pubblicate dall’Osservatorio Nazionale Adolescenza- riportano che il 77% dei ragazzi che entrano in contatto con critiche sui social dichiara di essere triste ed assume comportamenti tipici della depressione. Non solo: oltre il 10% entra nel tunnel dell’autolesionismo ed un ragazzo su dieci cerca il suicidio e, purtroppo, taluni trovandolo. Basti pensare al recente caso di una quattordicenne di Novara, ripresa con un telefonino mentre, incapace di reagire per la dose di alcol assunta, veniva molestata sessualmente. Quel video divenne subito virale e portò la giovane a suicidarsi. Stessa fine, sparandosi un colpo di pistola al petto davanti ai familiari, fece una diciottenne in Texas logorata dai cyber-insulti in cui veniva accusata di essere grassa.
E come dimenticare il caso di Tiziana Cantone, la 31enne napoletana che si è tolta la vita perché incapace di sopportare il clima che attorno a lei si era creato dopo la diffusione di alcuni video hot da lei girati? È nato tutto per un gioco -folle, stupido, squallido- ed è finito con un funerale. La ragazza aveva girato 6 filmini in cui si lasciava ritrarre in pratiche sessuali con uomini insultando il fidanzato, dandogli del “cornuto”, ed ha poi inoltrato questi video ad un gruppo di -chiamiamoli così- “amici”, illudendosi che possa esistere una viralità controllata e controllabile. Nulla: questi video divengono di dominio pubblico e Tiziana non riesce più a vivere. La sua vendetta contro il fidanzato diviene una condanna per lei. I giornali titolano “Si suicida la donna che chiedeva l’oblio”. Purtroppo, però, il web non conosce vuoti di memoria.