di Tiziano Bianchi* e Federico Secchi**
Quando si evoca il concetto di territorio, si rischia facilmente di scivolare sul terreno minato degli equivoci. E’, infatti, una di quelle categorie descrittive in cui si stratificano una molteplicità di significati e di allusioni semantiche. La tentazione è, soprattutto e prevalentemente, quella di considerare il territorio come un unicum indistinto, come un’astrazione concettuale – contenitore, che prescinde dalle relazioni umane e sociali che si sviluppano all’interno del contesto e che si traducono in rapporti di forza in continua evoluzione.
Un fraintendimento di fondo che genera a cascata numerosi equivoci, fra cui l’enunciazione del superamento delle naturali conflittualità e competitività degli attori individuali e collettivi che agiscono all’interno del contesto e che insieme, nel moto di un processo dialettico permanente, contribuiscono a costruire la sintesi di una dimensione identitaria.
Il territorio lo si può analizzare in chiave politica o in chiave storica, in chiave culturale o in chiave paesaggistica. In chiave agronomica o in chiave sociologica. E così via. E ogni volta se ne deduce una matassa di significati e di valori differenti. Non è un unicum astratto, il territorio. E’, piuttosto, un contenitore combinato di fattori materiali e di fattori sociali che interagiscono dinamicamente, sino a definire di volta in volta la cristallizzazione di un profilo identitario collettivo, condiviso dai soggetti che lo agiscono dall’interno e riconosciuto come sintesi identificante e irripetibile da chi si pone come osservatore e/o fruitore esterno. Il concetto di territorio, quindi, comincia a chiarirsi come descrittore unitario e significativo, quando il contesto assume la conformazione di luogo in senso antropologico e sociologico. Dove per luogo si intende un contesto storicizzato, identitario e agito collettivamente in senso orizzontale; in una visione dei processi materiali, che supera l’esclusiva dimensione cartesiana di una mappatura geolocalizzata.
E tuttavia, i tratti della contemporaneità sono fortemente segnati dall’esperienza del territorio deidentificato e anonimizzato; un’esperienzialità che fa quasi apparire novecentesca e superata la visione del territorio come luogo socialmente agito. Un arretramento culturale e ideologico, funzionale alle esigenze della fungibilità globalizzata, che sposta irrimediabilmente in secondo piano gli elementi della storicità e dell’identitarismo originale dei contesti. La cifra della civiltà metropolitana, individuata dal principio dell’anonimato relazionale e della replicabilità massiva delle produzioni e degli scambi, si è dilatata anche al di fuori delle macro aree urbane e oggi si propone come descrittore quasi esaustivo della società globale; un modello unificante ed egemonico che investe anche le comunità della periferia e delle cosiddette terre alte, che per millenni avevano vissuto elaborando una grammatica valoriale e organizzativa autonoma rispetto a quella di matrice urbana. Anche queste comunità, oggi, si definiscono soprattutto nel punto di intersezione fra i fenomeni di internazionalizzazione globalizzata delle merci a quelli di digitalizzazione uniformante delle relazioni e della trasmissione delle conoscenze.
I processi di internazionalizzazione dei mercati e di produzione replicabile della merce, da una parte, e l’uniformazione dei comportamenti di consumo e degli stili di vita, hanno incrinato concettualmente e materialmente la categoria interpretativa territorio – luogo antropologico. E’ uno scenario che da un lato accentua l’alta fungibilità e sostituibilità delle merci, anche della filiera agro-alimentare, destinate prevalentemente ai mercati internazionali; destinazione che richiede necessariamente, perché rivolta a soggettività indistinte, una narrazione semplificata e decodificata del marcatore territoriale originario, e dall’altra impone costitutivamente l’omogeneizzazione delle dinamiche sociali e dei comportamenti di consumo che si svolgono all’interno del contesto.
Sullo sfondo di questo scenario il territorio, che da luogo è destinato a diventare non luogo, contenitore asettico di consumatori e di produttori, affidato a forme di governace sempre più ispirate a modelli aziendalizzati, verticali e tecnocratici, che impoveriscono la capacità di autogoverno, e di creazione di ricchezza, delle soggettività tradizionali. Una tendenza allo spossessamento delle autonomie decisionali e produttive, che si esprime con forza invincibile e ineluttabile attraverso i processi di concentrazione industriale e finanziaria; gli stessi che, per esempio, in questa stagione stanno investendo anche il movimento cooperativo, soprattutto nei settori del consumo e del credito, in Trentino, inducendo una disarticolazione strutturale delle relazioni comunitarie tradizionali. In mezzo un’infinità di sfumature e di processi evolutivi, o involutivi, che raccontano di come ogni singolarità territoriale abbia trovato il modo, a volte con la resa incondizionata a volte esprimendo capacità di resistenza, di confrontarsi e di trovare nuove forme di sintesi con le dinamiche ineluttabili che informano la contemporaneità globalizzata.
Per evitare di apparire artificiosamente astratti e leziosamente ideologici, si proverà a declinare questo quadro d’insieme nel contesto concreto del Trentino vitivinicolo; e attraverso questa lente, si cercheranno di leggere in controluce anche le trasformazioni profonde, che la vulgata del pensiero dominante ha chiamato modernizzazione, che hanno attraversato questo settore a partire dagli anni Ottanta, crinale temporale che segna l’inizio dei nuovi scenari globalizzati su scala mondiale.
Risulta utile, in questo senso, analizzare il rapporto elaborato nel 2011 dall’Osservatorio delle Produzioni della Camera di Commercio di Trento, sullo stato della viticoltura. Sino a trentacinque anni fa, la composizione ampelografica del vigneto locale era saldamente profilata attorno alle uve autoctone a bacca rossa. Le varietà prevalenti erano la Schiava (34 %) e la Lambrusca a Foglia Frastagliata – Enantio (12,6 %); Teroldego, Marzemino e altre uve tradizionali occupavano il 20 % della superficie vitata. Alla fine degli anni Settanta, quindi, il vigneto locale si presentava ancora come un comparto produttivo decisamente strutturato attorno alla tradizione e all’autoctonismo a bacca rossa (70 %). Poi arrivò la cosiddetta modernizzazione, in direzione industrialista, delle campagne. E tutto cambiò.

A distanza di 30 anni (2010), infatti, quel ritratto non solo non è più attuale ma non è nemmeno più lontanamente riconoscibile. Intanto la coltivazione si è spostata decisamente sul frutto da vinificazione in bianco: uve Chardonnay e Pinot Grigio nel 2010 rappresentavano circa il 50 % della coltivazione. Negli anni successivi (tabella 2) la tendenza non solo è stata confermata, ma si è consolidata ulteriormente: la campagna vendemmiale 2015 ha fatto registrare un 60 % di raccolto interamente attribuibile a queste due varietà, con una leggera prevalenza del Pinot Grigio sullo Chardonnay. Non è un caso che la riconversione del vigneto, orientata dalle centrali cooperative operanti prevalentemente sui mercati esteri, abbia privilegiate due varietà internazionali: la spendibilità delle merci sul mercato globale è infatti inversamente proporzionale, salvo tutte le eccezioni del caso che pure ci sono, alla marcatura territoriale di origine, che inevitabilmente è destinata a semplificarsi e ad appannarsi lungo tutti i numerosi passaggi della filiera di intermediazione commerciale e risulta quindi essere più un ostacolo alla fluidità degli scambi globalizzati che un valore aggiunto.
In corrispondenza, si è assistito ad una caduta verticale, al limite dell’annientamento, del grande parco dell’autoctonismo trentino a bacca rossa: Schiava ed Enantio oggi rappresentano, insieme, meno del 3 % del raccolto. Un discorso a parte, e più approfondito, meriterebbero le due varietà Teroldego e Marzemino: la prima saldamente protetta dalla denominazione rotaliana (DOC Teroldego Rotaliano), che ha fatto scudo rispetto alle politiche di espianto che hanno vessato le altre DO; la seconda cresciuta sul finire del secondo millennio, in corrispondenza con un tentativo di animazione consortile; ma oggi, dopo cinque anni dall’ultimo rilevamento, anch’essa sottoposta a significative e consistenti politiche di riconversione a favore delle due varietà prevalenti destinate ai vini da export.
Il vigneto locale trentino, oggi, quindi presenta un profilo altamente internazionalizzato, saldamente strutturato attorno a due varietalismi funzionali alla produzione massificata ed industriale da spendere sui mercati esteri; i due grandi oligopoli industriali del Trentino, Cavit e Mezzacorona, insieme producono un fatturato annuo di 350 milioni di euro, di cui oltre l’80 % viene generato dall’esportazione agita sulla grande distribuzione internazionale di fascia media. Una performance di risultato raggiunta anche grazie alla lavorazione di denominazioni extraterritoriali o non esclusivamente locali (Prosecco, Provincia di Pavia, Venezie, Valdadige) le cui marginalità, derivanti dall’acquisto di materia prima a prezzi vantaggiosi, consentono di implementare artificiosamente la redditività degli agricoltori trentini inseriti nell’orbita cooperativa. Un processo evolutivo, quello cominciato a partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, che ha strappato al territorio elementi identitari comuni e condivisi e che ha inevitabilmente appannato il marcatore territoriale del vino a matrice locale.
Il mutamento della base produttiva, del resto, negli ultimi trent’anni è stato accompagnato anche da una profonda ristrutturazione in senso aziendalista e verticale del settore. Nel mentre la base produttiva subiva un progressivo accentramento nell’orbita cooperativa, che oggi rappresenta circa il 90% della produzione viticola, anche l’organo di autogoverno del settore si adattava alle nuove esigenze dell’economia industriale orientata al mercato: il Comitato Vitivinicolo provinciale, strutturato sul principio della rappresentanza democratica interprofessionale – una categoria, un voto -, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso veniva surrogato da un’esperienza consortile aziendalizzata ispirata ai modelli societari, che affidava la gestione dei processi decisionali interamente all’oligopolio degli imbottigliatori commerciali. Si legge in questo senso anche la recente fuoriuscita (2015) della categoria dei vigneron dall’organo di autogoverno del settore, Consorzio Vini del Trentino; ente che affidava loro una rappresentanza minoritaria e irrilevante sotto il profilo decisionale, modulata non sul loro talento di trasmettitori di esperienza e di testimoni del territorio, ma sul loro peso misurato in volumi produttivi.
E’ questo lo scenario di riferimento della vitivinicoltura trentina di oggi, che, nell’adottare modelli gestionali e di sviluppo aderenti alle esigenze del mercato globalizzato, ha smarrito, salvo poche eccezioni – Teroldego Rotaliano e Trento D.O.C., che tuttavia insieme rappresentano poco meno del 15 % dei volumi di produzione – il marcatore territoriale di origine. Una traiettoria evolutiva che ha smaterializzato la suggestione identitaria del vino locale, che oggi appare orfano di una significante appartenenza territoriale, se con questa aggettivazione, tornando all’inizio della nostra riflessione, si intende l’evocazione di un luogo storicizzato, identitario e agito orizzontalmente. E orfano di una piccola patria, di una heimat condivisa, da raccontare attraverso la narrazione simbolica delle etichette.
Ed è in questo scenario, in cui il prodotto appare sempre più svincolato dalla radice di originazione in una prospettiva di mercificazione industriale, che si colloca la percezione diffusa della difficoltà della vitivinicoltura trentina di generare reputazione sul mercato dei vini di pregio e quindi reputazione territoriale diffusa da spendere, per esempio, sul terreno dell’attrattività turistica. Oltre alla crescente difficoltà, registrata dagli indicatori economici, del sistema, così come si è andato modulando negli ultimi decenni, di creare ricchezza per i coltivatori d’uva delle terre alte e di collina, soggetti principali della viticoltura identitaria e di qualità.
Non c’era altra strada per il Trentino? Era davvero ineluttabile per la vitivinicoltura provinciale assumere a paradigma esclusivo la gerarchia valoriale e i moduli organizzativi dell’economia globalizzata sino ad assumere rispetto ad essa una posizione di arrendevole subalternità? O un’alternativa c’era? E magari c’è ancora?
Una risposta, fra le tante possibili, arriva dall’osservazione di ciò che accade nel vicino Alto Adige. Ma l’analisi potrebbe essere allargata, con risultati sovrapponibili, anche ad altri territori messi a denominazione in prossimità del Trentino, come la Valpolicella o l’area vitata di Bardolino, dove la fascinazione della globalizzazione si è declinata in luoghi che hanno dimostrato un’insospettabile capacità di resistenza, in forza di un penetrativo tratto identitario di contesto, all’internazionalizzazione ampelografica. Per semplicità ed esigenze di sintesi, ci si ferma, comunque, all’esempio sud tirolese.
Intanto, la composizione del vigneto in provincia di Bolzano: a differenza di quanto è accaduto in Trentino, a nord di Salorno lo spettro varietale della coltivazione negli ultimi decenni ha mantenuto una significativa aderenza con la tradizione dell’autoctonismo locale: le uve Schiava, pur a differente denominazione – fra il lago di Caldaro, i pendii di Santa Maddalena a Bolzano e le Colline di Merano – continuano, infatti, a rappresentare la maggioranza del vigneto sudtirolese. La composizione equilibrata e bilanciata del vigneto ha consentito all’Alto Adige di mantenere un legame riconoscibile con l’origine territoriale, rifuggendo generalmente dalle tentazioni della semplificazione globalizzata. Il vino sud tirolese in questo modo ha continuato a rappresentare un pezzo significativo, se non decisivo, della narrazione e della reputazione del territorio inteso come luogo agito orizzontalmente fra soggetti, che pur in una competizione dialettica spinta, si riconoscono in un unicum identitario: il territorio – luogo. Anche le varietà internazionali (Pinot Grigio, Chardonnay, Pinot Nero) che pure sono presenti in quote significative nella composizione del vigneto, hanno assunto un’interpretazione locale irripetibile, che è riuscita a prevalere sull’astratto formalismo varietale. E sarebbe interessante approfondire l’esperienza del Pinot Noir vinificato da uve coltivate ai Pochi di Salorno, oggi considerato unanimemente come uno degli archetipi autentici di questa varietà.

Si osserva così un modello antitetico rispetto a quello che ha egemonizzato la campagna industrializzata del Trentino e i suoi soggetti produttori. Un modello, fra l’altro, capace, di produrre ricchezza diretta con maggiore efficacia rispetto al meccanismo di generazione di reddito adottato in Trentino. Il ricavo medio / ettaro in provincia di Trento si colloca fra i 10 e gli 11 mila euro lordi su base annua. Livelli di rimuneratività molto distanti, da quelli certificati dalla cooperazione altoatesina, che invece si attestano sulla soglia dei 19 mila euro/ettaro (tabella 4).

Entrando ancora più nel dettaglio, è utile mettere a paragone i risultati economici generati dalla più performativa fra le cantine sociali del Trentino, quella di Roverè della Luna, con una coop di pari dimensioni dell’Alto Adige, San Michele Appiano – Eppan (tabella 5). La scelta della produzione di vini di qualità, contrassegnati da basse rese ettaro, e a forte marcatura territoriale, appare quindi ancora una volta premiante per la redditività contadina. Una forbice che nasce in campagna, misurata sui prezzi alla produzione delle uve, che si riflette inevitabilmente anche sui prezzi del prodotto finito (tabella 6), che accordano alle denominazioni dell’Alto Adige un largo vantaggio rispetto a quelle trentine.

Nei prossimi giorni, il 15 maggio, due giovani enologi impiegati nella cooperazione alto atesina, Andrea Moser (Cantina di Caldaro) e Gerhard Sanin (Erste + Neue), infileranno le loro tutine da ciclisti e saliranno su un tandem; fasciati nel simpatico vessillo nero dei “Pirati del Kalterersee”, per quindici giorni pedaleranno in lungo e in largo attraverso l’Italia dei ristoranti, delle pizzerie e dei mercati rionali, fino a giungere a Capri a fine mese; obiettivo, raccontare con semplicità, disinvoltura e orgoglio il loro territorio e il loro vino: il Kalterersee, la Schiava a denominazione di origine controllata coltivata sulle sponde del Lago di Caldaro.

Lo stesso vino, con la medesima denominazione interprovinciale introdotta nel 1970 (Lago di Caldaro – Kalterersee), può essere prodotto anche in alcuni Comuni della Provincia di Trento prossimi all’Alto Adige: Roverè della Luna, Mezzocorona, Faedo, San Michele all’Adige, Lavis, Giovo, Lisignago e Cembra. Ma, a differenza di quanto accade a nord di Salorno, la produzione di Caldaro – Kalterersee, vino territoriale e identitario a base Schiava, in Trentino è ormai ridotta a poche decine di migliaia di bottiglie (tabella 7).
A ciascuno, insomma, i suoi pirati. All’Alto Adige – Territorio Luogo, quelli con le mani da contadini e la bandiera di del Kalterersee; al Trentino – Territorio Non Luogo, quelli in giacca e cravatta con la bandiera del mercato globale e del Pinot Grigio / Chardonnay. #territoriocheresiste e #territoriochenonresiste
*Giornalista e Ambasciatore delle Città del Vino
**Sindaco di Avio e Vice coordinatore Regionale delle Citt