di Luigi Tramonti
Scrivi ad Antonio, e fai in fretta, non possiamo permetterci che le notizie che giungono a Roma siano ormai superate, soprattutto ora che siamo così vicini al Trionfo, così vicini al potere assoluto.”
Il senatore fissò il Dictator, seduto sulla seggiola destinata al comandante supremo, strabuzzò gli occhi e con un filo di voce chiese:” Cosa devo scrivere ad Antonio, proconsole?”
Si era riferito a lui utilizzando il titolo dovutogli per la carica che ricopriva prima di oltrepassare il Pomerium, il limite impostogli dalle leggi repubblicane, e mettersi così contro l’intero Mondo conosciuto. Alla testa di cinquemila uomini e trecento cavalli , Cesare aveva mosso contro l’ Universo. E ora si trovava lì, a Munda, in Hispania, ad affrontare gli ultimi rimasugli dell’armata di Pompeo, morto in Egitto tempo addietro, capitanata dai suoi figli Gneo e Sesto e dal suo fido luogotenente di un tempo Tito Labieno.
Davanti a quel vecchio politicante che arrancava al suo cospetto Giulio Cesare non poté fare a meno di pensare a Labieno, a come si sarebbe comportato lui in quella situazione; avrebbe già scritto ad Antonio di sua iniziativa giorni prima, rigorosamente in codice cifrato, e questo gli avrebbe permesso di disporre di tre legioni di soldati freschi al confine delle Gallie, e non di soli uomini spossati reduci dalla campagna d’Africa.
La mente gli corse al giorno in cui aveva deciso di attraversare il Rubicone, confine invalicabile per una legione. «Ecco l’uomo che dobbiamo combattere. Ha tutto, gli manca solo la buona causa.» aveva detto Cicerone in Senato, ma aveva torto, lui una buona causa la aveva, avrebbe salvato la Res Publica dallo sfacelo in cui quei vecchi ingordi l’avevano gettata. Non appena Munda e i repubblicani fossero caduti avrebbe restituito il Governo al popolo e avrebbe vigilato su di esso in qualità di Dictator Perpetuus, come Rex.
Labieno non era stato d’accordo, aveva raccolto la sua guardia personale ed era passato ai Pompeiani assieme alla sua guardia del corpo. «Abbiamo perso duecento uomini e un parassita!» mormorava la truppa; ma Cesare sapeva di aver perso un amico e il più fedele e geniale alleato su cui potesse contare. Da quel momento si era sentito veramente solo, qualsiasi tradimento avrebbe potuto subire, ma nessuno lo avrebbe ferito come quello di Labieno, il bambino che si era addestrato con lui mentre Roma veniva messa a ferro e fuoco da Mario e Silla, il generale che marciava al suo fianco contro orde di barbari oscuri negli angoli più remoti del mondo, l’amico con cui, solo tra tanti nella sua vita, aveva potuto confidarsi.
Non aveva mai pianto nella sua vita, né per la figlia Giulia né per il resto della sua famiglia, e quelle versate sulla testa di Pompeo non erano state vere lacrime, ma per Labieno aveva pianto, e aveva giurato che lo avrebbe riavuto con sé, avrebbe avuto il suo regno e una tomba su cui piangere.
Per lui in quel momento Labieno era morto, aveva voltato le spalle a tutto quello che era stata la loro vita da camerati, aveva offerto la propria spada ad un altro comandante e aveva finito per guidare il fronte a lui avverso; Labieno per lui era morto, e, in un modo o nell’altro, a Munda si sarebbe trattato solo di ufficializzare la sua dipartita.
Gli eserciti erano finalmente schierati davanti a lui, le armature risplendevano e sfavillavano dando l’impressione di essere in movimento anche da ferme. I cimieri degli elmi romani erano mossi dal vento e le espressioni dei soldati erano pietrificate, entrambi gli schieramenti erano certi di come sarebbe finita.
“Attenti, Labieno ha spesso combattuto per la vittoria, ma oggi combatte per la propria vita.” la voce di Cesare era di ghiaccio e mentre parlava i suoi occhi di un nero profondo cercavano l’antico nemico tra le fila dei pompeiani.
D’un tratto le truppe repubblicane cominciarono a marciarono a marciare verso quelle cesariane; “Incredibile Cesare! Attaccano loro!” “Senatore, si trovano in favore di pendio e in superiorità numerica, pur senza un condottiero di rilievo alla loro testa hanno trovato il coraggio di attaccare. Ma non disperare, oggi si decide della mia Opera, non vinceranno. Date ordine al principe Bogud di attaccare!”
Quando le due armate vennero a contatto non si udì altro che un terribile cozzare di scudi e le spade cominciarono a tingersi di rosso; non passò molto tempo che l’ala destra cominciò a cedere, sottoposta alla pressione di un nemico superiore per numero, mezzi e motivazione.
“Non posso permettere che le truppe cedano ora che Bogud non è ancora intervenuto, ti affido il comando, la truppa ha bisogno di me.” Strillò al nipote Ottaviano che lo seguiva come attendente e apprendista, dopodichè montò a cavallo e raggiunse la prima linea, tra scintillii di lame e grida di furore.
“Avanti miei leoni! Volete diventare degli eroi? Avanti nel nome di Roma! Nel nome di Cesare!” I muscoli dei legionari parvero tendersi e diventare d’acciaio temprato, alla sola vista del comandante supremo le truppe, galvanizzate, stavano contenendo l’inarrestabile slancio dei pompeiani.
Le lance trafissero decine e decine di repubblicani, riguadagnando a Cesare alcuni metri preziosi sul pendio.
In quel momento la riserva di Bogud sorprese il nemico da tergo incalzandolo mentre gli offriva la schiena, e lasciandolo così ad annaspare tra una tenaglia che l’avrebbe velocemente annientato, se lo stesso Labieno con i duecento del Tradimento non fosse uscito dalle mura di Munda.
“Fermatevi! Lo voglio vivo!” gridava Cesare da un settore ormai sgombro dai nemici.
“Avanti! Per il Dictator!” spronava i suoi soldati il principe mauritano Bogud.
Labieno combatteva in silenzio, vorticava il gladio troncando teste, avvolto nel suo mantello, rosso come la fiamma del tramonto.
Perfino il più infimo dei soldati si accorse del valore di quell’uomo e capì perché Cesare avesse voluto al suo fianco un simile titano.
Ma nemmeno il più resistente tra i mortali avrebbe potuto resistere da solo, e ben presto Labieno si ritrovò solo, e scomparve sotto una gragnuola di colpi.
Stava progettando gli ultimi rastrellamenti della città quando vennero a chiamarlo: “Signore, è Labieno, è cosciente e vuole parlarvi.”
Il Dictator si lasciò alle spalle l’etichetta richiesta a un uomo che si era appena conquistato sul campo il potere assoluto, il diritto di tenere in pugno le sorti del Mondo; corse fuori con addosso la toga da ricevimento, inzauppandola di fango e della pioggia che si era scatenata dopo la fine della battaglia, come se gli dei volessero lavare via dall’Hispania il ricordo di una simile guerra fratricida.
“Gaio…”
“Tito.”
“Sto per andarmene nell’Ade, non parlarmi come se avessi del tempo per portare rancore…”
“Hai preso le armi contro di me.”
“No, non contro di te, in favore della Repubblica…”
“Non hai nessun valore, Labieno? Amicizia, Fratellanza, sono parole vuote per te?”
“Libertà…”
“Tradimento.”
Un rivolo di sangue gli uscì dall’angolo della bocca.
“Addio, Gaio… fratello…”
“Fratello.”
Tito Labieno chiuse gli occhi per sempre e Gaio Giulio Cesare, Dictator Perpetuus della Res Publica Romana, l’uomo più potente del Mondo, Zeus in Terra, pianse. Per l’ultima volta una lacrima uscì dai suoi occhi neri come l’Inferno.
Da La Spada di Damocle – Aprile 2016