Donne, non femministe

di Marika Poletti

Le donne votano –e si fanno votare-, lavorano –e danno lavoro-, studiano –ed insegnano- anche ai massimi livelli. Le suffragette sono lontane, almeno quanto è profondo il color seppia delle fotografie che le ritraggono, e per il resto il raggiungimento dello status quo non è di certo annoverabile come merito delle cosiddette femministe. Anzi, proprio tutt’altro.

Basterebbe sol pensare che è datata 1935 la legge che, per prima nel Vecchio Continente, equiparò la paga delle donne a quella maschile e la ritroviamo in quella Germania in cui, ad un occhio superficiale, non te l’aspetteresti. Il Governo tedesco dell’epoca fece approvare una legge nei primi 6 mesi dall’ascesa al potere finalizzata a ridurre la disoccupazione, ribadendo che le donne sono compagne e non concorrenti degli uomini, incentivandone il ruolo domestico e preservandole in ogni caso dall’industria pesante. Qualora invece una donna volesse –o fosse per necessità obbligata a- lavorare, a lei doveva esser riconosciuto un egual stipendio rispetto al collega maschio. Traguardo, questo, ottenuto senza scendere in piazza a bruciare reggiseni ed abbassarsi a comportamenti di una volgarità tale da degradare una donna a creatura labile di pensiero –e di integrità.

La condizione ottimale sarebbe il raggiungimento dell’equilibrio tra vita privata e pubblica ma i contemporanei movimenti di rivendicazione rosa tendono a volerne sovvertire le fila. “Il femminismo” scrisse Chesterton “è mescolato con l’idea confusa per cui le donne sono libere quando servono il datore di lavoro ma schiave quando aiutano i mariti”.  In altre parole, la donna dovrebbe svincolarsi dal vincolo complementare con l’uomo, possibilmente con il proprio uomo, per rendersi attrice sul palcoscenico delle libertà effimere che dalla rivoluzione sessuale sono indicate come meta da raggiungere.

Con contraccezione ed aborto la donna può restringere a suo piacimento la sfera privata, fino quasi ad annullarla, annientando anche i diritti di soggetti terzi come l’uomo, che non può più decidere del suo essere padre, e del figlio che può esser eliminato in totale discrezionalità. In qualunque modo la si pensi, è innegabile che queste due cosiddette libertà (libertà di aborto e libertà di sesso) sono al servizio del consumismo, permettendo alla donna di prestarsi ad ogni forma di relazione e con chiunque voglia, senza chiedere in cambio l’impegno di una responsabilità duratura e senza contemporaneamente dover interrompere il proprio ciclo lavorativo al servizio del datore di lavoro. Si sta parlando delle  classiche libertà che ti rendono schiava.

Che senso ha, quindi, il femminismo ora? Interessante quesito, soprattutto partendo dalla constatazione che l’unico aspetto in cui la donna è ontologicamente differente dall’uomo e per cui necessiterebbe un trattamento diverso è la maternità, guarda caso lo specifico ambito in cui le femministe si guardano bene da intervenire. Il che, a dirla proprio tutta, non è nemmeno un male considerato che le loro battaglie in materia consistono nel totale snaturamento della gestazione, facendo diventare la “mamma” quel “concetto antropologico” di cui ora si parla per legittimare l’abominevole pratica dell’utero in affitto. Le varie commissioni pari opportunità, in combinato con l’associazionismo vetero femminista di cui si cibano, individuano come soluzioni lo spostamento in avanti dell’età media della madre –per permettere che ella possa prima rispondere alle logiche di mercato-, arrivando anche a promuovere la crioconservazione degli ovuli, e l’affido del bambino sin dai primissimi mesi a strutture esterne come asili nido. Ambedue pratiche dagli effetti molto negativi sia per la donna, cullata nell’illusione che vi sarà sempre tempo –e, qualora non vi fosse, può tramutarsi in mamma-nonna tramite l’inseminazione artificiale-, che soprattutto per il bambino il quale, fino a 9 mesi circa, dovrebbe poter avere una sola figura di riferimento primaria non essendo cerebralmente in grado di capire la differenza tra un momentaneo allontanamento ed una definitiva scomparsa.

No, il femminismo contemporaneo è funzionale ad altro. Siamo di fronte ad una sorta di bullismo istituzionale di cui è innervata, volente o nolente, tanta parte della classe politica che fintamente dice di voler valorizzare la donna ma, di fatto, risponde in pieno al piano di de-virilizzazione della società. L’humus culturale che fa da liquido di governo  di tale approccio è quello espresso orgogliosamente dalla Senatrice Cirinnà la quale, per innalzare a modello il matrimonio gay, è arrivata a sostenere che la fedeltà nella coppia è uno strumento contro la donna che giustificava il delitto d’onore e la cultura dello stupro. Qualcosa davvero non quadra quando dai banchi del Senato vengono lanciati insulti a quello che dovrebbe essere considerato uno dei valori più importanti di una comunità umana.

Una subcultura che descrive gli uomini come mostri, violenti e misogini, come alfieri della teoria del possesso. Il che porterebbe legittimamente a domandarsi se le femministe abbiano deciso perciò di tenersi a casa degli eunuchi…

La sostituzione del patriarcato con un matriarcato serpeggiante non migliora la società che, all’inverso, ne risulta demolita alla base, corrodendo alle radici la crescita equilibrata delle giovani generazioni. “Tutto ciò che evoca la virilità o la mascolinità suscita sarcasmo, disprezzo od ostilità. La nozione di autorità è screditata nel suo principio” osserva Alain De Benoist. “La destituzione dei valori virili conduce gli uomini a dubitare di se stessi, cosa che deteriora gravemente i rapporti fra i sessi. Il crollo della funzione paterna produce una generazione di narcisisti immaturi che non hanno mai risolto il complesso di Edipo. Questa evoluzione è uno degli aspetti centrali della società postmoderna che si dispiega sotto i nostri occhi.” Come dirlo meglio?

Da La Spada di Damocle – Marzo 2016

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