di Elisabetta Sarzi
La figura della donna guerriera risale alle epoche più antiche, in ogni cultura e religione del mondo, dalla mitologia alla storia documentata. Ed è curioso ritrovarle anche in quelle società dove è più difficile immaginare (vuoi per senso comune indotto, vuoi per mera realtà storica) la figura femminile in un contesto maschile. Poco conosciute ad esempio le eroine del mondo medio-orientale e musulmano, dal Maghreb al Burkina Faso, alla Nigeria, in cui si incontrano donne non solo guerriere, non solo regine ma anche leader religiose (a testimonianza di come gli scenari cambiano nel corso della storia).
Ritengo sia fondamentale innanzitutto specificare che la donna guerriera nella maggior parte dei casi è innanzitutto un’appartenente alla nobiltà: nonostante il concetto generico e superficiale che ci viene proposto, usando come unico immaginario gli avidi nobili della Rivoluzione Francese nemici del popolo, l’appartenenza ad un casato denota prima di tutto un’investitura dall’alto. Avere un titolo significa (o meglio, significava, considerata la fine che hanno visto i regni nel nostro secolo) avere un compito prestabilito nei confronti nella comunità umana a cui si appartiene, anteponendo questo anche alla propria vita.
Molti sono anche esempi di investitura legati al culto di appartenenza, come fu Santa Giovanna d’Arco per il Cristianesimo e donne della mitologia greca, norrena…
Affronterei due tipi di esempi storici caratterizzanti, recanti rispettivamente due tipi di “investitura” alla guerra: le Onna-bugeisha (o “donne-samurai”) in Giappone e le donne del SAF (o Ausiliarie, del Servizio Ausiliario Femminile) in Italia.
L’Onna-bugeisha
Il termine consiste nel nome femminile onna (donna) e il derivato maschile bugeisha (guerriera). Questa classe sociale era costituita da una rappresentanza delle classi giapponesi più elevate. Molte mogli, vedove, figlie e ribelli risposero alla chiamata per partecipare alle battaglie, spesso a fianco dei samurai. Erano tutte membri della classe dei bushi (samurai) nel Giappone feudale e vennero allenate nell’uso delle armi per proteggere le loro case, famiglie e il loro onore nei tempi della guerra; sono state figure molto importanti nel Giappone antico. Icone che hanno segnato la storia del Giappone, modellandolo in quello che la nazione è diventata oggi.
Le donne dei samurai avevano come ruolo principale quello di badare alla casa. Questo era particolarmente cruciale nell’età feudale, quando i mariti erano spesso lontani a combattere in altri Stati oppure impegnati in battaglie di clan. La moglie, o okugatasama (letteralmente: colei che rimane a casa), oltre che badare ai figli e alle faccende, si trovava spesso a dover fisicamente difendere la casa da ladri e invasori. Per questo motivo molte donne della classe dei samurai venivano addestrate all’abile uso di un’arma a forma di palo chiamata naginata, o di uno speciale coltello chiamato kaiken. Proteggere la famiglia, ma anche l’onore erano di primaria importanza. Queste donne venivano cresciute secondo i valori dell’umiltà, dell’obbedienza, dell’auto-controllo e della lealtà. Nonostante fossero considerate come appartenenti alle classi alte, le donne dei samurai erano sempre subordinate agli uomini e dovevano occuparsi anche di questioni finanziare e di eventuali suoceri anziani, oltre che dei mariti, della gestione della servitù e dell’educazione dei figli.
Furono tramandate molte storie di samurai devoti e coraggiosi. Tra questi ci fu Tomoe Gozen, moglie di Minanoto Yoshinaka del clan Minamoto. Gozen assistette il marito contro gli assalti del cugino ; fu anche un notevole arciere e abile con la spada
Anche se non è provato si tratti di una figura storica, Gozen impattò pesantemente sulla classe guerriera, incluse molte scuole tradizionali di naginata. Le sue azioni in battaglia ricevettero molte attenzioni dalle arti scritte e pittoriche. Con il passare del tempo, l’influenza della onna-bugeisha si spostò dalla pittura alla politica.
Hojo Masako, fu la prima onna-bugeisha ad occupare ruoli importanti nella politica: durante i primi anni del regno, si fece suora buddista, destino tipico delle vedove dei samurai, diventando nota come “il Generale con gli abiti da suora. Con gli sforzi congiunti di Masako e alcuni politici, le leggi che governarono la corte all’inizio del XIII secolo garantirono alle donne gli stessi diritti del ramo maschile. Queste leggi permisero anche alle donne di amministrare la finanza, le proprietà, seguire la casa e amministrare la servitù, e di poter allevare i propri figli secondo la tradizione e l’onore dei samurai, oltre a difendere le proprie case in tempo di guerra.
Infine Takeko Nakano, una bellezza di ventidue anni che aveva praticato il naginata-jutsu, altre arti marziali e calligrafia e che usualmente si allenava ogni mattina eseguendo un migliaio di fendenti con la spada. Durante la battaglia, si trovò nel mezzo del gruppo nemico, mietendo molte vittime con la sua finché non cadde colpita al petto da una pallottola. Allora ordinò alla sorella Yuko di tagliarle la testa per riportarla a casa ed impedire che cadesse come trofeo in mano nemica, sorte che i samurai consideravano come una disgrazia.
L’Ausiliaria
Sicuramente molto meno conosciute delle combattenti russe e quasi (volutamente) dimenticate di fronte alle figure delle partigiane italiane, portate quasi come unico esempio femminile di combattente nella Seconda Guerra Mondiale, le donne del Servizio Ausiliario Femminile (istituito con decreto legge nella Repubblica Sociale Italiana) sono state una categoria rimasta unica nel suo genere.
Ad eccezione delle crocerossine e delle vivandiere, impiegate già durante la Grande Guerra, qui non esistevano precedenti con donne in mezzo ai soldati. Fin dall’inizio della guerra, l’apporto femminile era limitato a quelle mansioni da sempre ritenute più consone: visite ai feriti negli ospedali militari, confezione d’indumenti e pacchi dono per i soldati e attività di sostegno morale per i combattenti, per lo più rappresentata in forma epistolare dalle cosiddette “Madrine di guerra”.
Il corpo del S.A.F. nacque grazie al Ministro Segretario del P.F.R., Alessandro Pavolini e alla sua scelta di una donna di comprovata esperienza, Piera Gatteschi Fondelli (Ispettrice Nazionale dei Fasci Femminili), per realizzarlo.
Non c’erano precedenti, il S.A.F. era tutto da inventare, eppure Piera Gatteschi (Comandante Generale, unica donna col grado equiparato a Generale di Brigata), riesce in breve e nelle condizioni eccezionali dovute allo stato di guerra, a dar vita ad un corpo che lo stesso Pavolini definiva “una delle istituzioni più serie ed utili fra tutte quelle che abbiamo”.
Le volontarie fasciste prestavano la loro attività “militante” negli ospedali e negli uffici, nei presidi e nelle caserme, nei posti di ristoro e nella difesa antiarea come aerofoniste.
Pubblicavano anche un loro periodico. “Donne in grigioverde”. Seguirono le truppe al fronte e combatterono contro gli invasori anglo-americani così come contro i partigiani titini nella Venezia Giulia.
Tra i loro compiti c’era anche quello casalingo di tener in ordine e rammendare le uniformi dei combattenti. Nei confronti di questo esercito femminile una costante attenzione della moralità. La divisa era realizzata con panno grezzo grigioverde per l’inverno, tela kaki per l’estate, e doveva avere la gonna a quattro centimetri sotto il ginocchio. Il gladio era il simbolo a cui le ausiliarie erano più attaccate. In testa portavano un basco grigioverde con la fiamma ricamata in rosso. Le calze erano lunghe e grigioverdi e il cappotto di tipo militare.
Da La Spada di Damocle – Marzo 2016