Adriano Romualdi: Destra e concetto di destra

di Federico Prati

La necessità di un vero movimento di Destra anche in Trentino è ormai irrimandabile.
E’ orami palese l’esigenza di un movimento metapolitico che si ponga radicalmente contro l’azione devastatrice e depravatrice attuata dalla Sovversione massonico-mondialista in ogni campo dell’umano agire, e che, allo stesso tempo, si collochi, alla stregua della Deutschvölkische Schutz- und Trutzbund, a protezione e difesa della nostra Eredità antropo-biologica, della nostra Tradizione spirituale, della nostra Identità etno-culturale… della nostra Heimat insomma!

In questi ultimi decenni il concetto di Destra è andato “perduto”, annacquato… o è stato astutamente artefatto dai fautori della religione laica del “politicamente corretto”, intrufolatisi ormai ovunque. Costoro hanno fatto scuola e ora la Destra e la cultura di Destra sono letteralmente infestate dai loro seguaci ed adepti, i quali, con la massima disinvoltura, spacciano per “destra” ciò che destra non è, anzi, tutto ciò che è completamente anti-tradizionalista ed anti-identitario, e, in particolare, diffondono un conservatorismo massonico di stampo risorgimentale-liberalista, che ha portato alla graduale e, forse, irreparabile penetrazione d’idee e pratiche proprie della cosiddetta destra massonico-liberale.

E’ importante, per questo, ri-proporre quanto scrisse in merito Adriano Romualdi nel suo testo: Indicazioni per una nuova cultura di destra.
Dalla lettura di questo importante testo, di cui sotto si riportano alcuni tra i più rilevanti passaggi, si capirà quanta “distanza” vi sia tra la concezione metapolitica propria di una vera Destra rispetto a tutti quelli che oggi si dicono o si “spacciano” per esponenti di destra.

A Voi lettori il compito più arduo: leggere, meditare e trarre le dovute e appropriate conclusioni.
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Brani tratti dal libro Indicazioni per una nuova cultura di destra di Adriano Romualdi.

Quali problemi si pongono a coloro che vogliono affrontare il problema della cultura di Destra?
Innanzitutto, si rende necessaria una corretta impostazione del problema. E il primo contributo a questa impostazione è la definizione dei rapporti che corrono tra Destra e cultura. Bisogna mettere in chiaro che, per l’uomo di destra, i valori culturali non occupano quel rango eccelso cui li innalzano gli scrittori di formazione razionalistica. Per il vero uomo di destra, prima della cultura vengono i genuini valori dello spirito che trovano espressione nello stile di vita delle vere aristocrazie, nelle organizzazioni militari, nelle tradizioni religiose ancora vive ed operanti. Prima sta un certo modo di essere, una certa tensione verso alcune realtà, poi l’eco di questa tensione sotto forma di filosofia, arte, letteratura. In una civiltà tradizionale, in un mondo di destra, prima viene lo spirito vivente e poi la parola scritta. Solo la civilizzazione borghese, scaturita dallo scetticismo illuministico, poteva pensare di sostituire allo spirito eroico ed ascetico il mito della cultura, la dittatura dei philosophes. Il democratico ha il culto della problematica, della dialettica, della discussione e trasformerebbe volentieri la vita in un caffé o in un parlamento. Per l’uomo di destra, al contrario, la ricerca intellettuale e l’espressione artistica acquistano un senso soltanto come comunicazione con la sfera dell’essere, con un qualcosa che — comunque concepito — non appartiene più al regno della discussione ma a quello della Verità. Il vero uomo di destra è istintivamente homo religiosus non nel senso meramente fideistico-devozionale del termine, ma perché misura i suoi valori non col metro del progresso ma con quello della verità. «Essere conservatori — ha scritto Moeller van den Bruck — non significa dipendere dall’immediato passato, ma vivere dei valori eterni». La cultura e l’arte di destra non possono pretendere di essere loro stesse il tempio, ma solo il vestibolo del tempio. La verità vivente è oltre. Di qui una certa diffidenza del genuino uomo di destra nei confronti della cultura moderna, un disprezzo impersonale per il volgo dei letterati, degli esteti, dei giornalisti. (…) Di qui l’ostilità del Fascismo e del Nazionalsocialismo al tipo dell’intellettuale deraciné. In essa non c’è solo la rozza diffidenza dello squadrista e del lanzichenecco per le raffinatezze della cultura ma anche l’aspirazione ad una spiritualità fatta di eroismo, fedeltà, disciplina, sacrificio. José Antonio raccomandava ai suoi falangisti il «sentimento ascetico e militare della vita». Fatta questa premessa, consideriamo più da vicino il compito di animare una cultura di destra. Il fine, lo abbiamo detto, è la costruzione di una visione del mondo che s’ispiri a valori diversi da quelli oggi dominanti. Non teoria o filosofia, ma una «visione del mondo». Questo lascia un largo margine di libertà alle impostazioni particolari. Si può lavorare a creare una visione del mondo di destra sia da parte cattolica che da parte «neo-pagana», sia proiettando il mito novalisiano dell’Europa-Cristianità che sostenendo l’identità Europa-Arianità. Un esempio modesto, ma interessante, di questa concordia discors c’è offerto dalle riviste giovanili del primo neofascismo. Cantiere e Carattere da parte cattolica, Imperium e Ordine Nuovo da parte evoliana hanno contribuito non poco a un processo di revisione di certi miti borghesi e patriottardi caratteristici della vecchia Destra. Queste riviste, ed altre che non abbiamo nominato (Il Ghibellino, Barbarossa, Tradizione etc.) contribuirono — pur con dei grossi limiti — ad avviare un certo discorso. Esse dovettero tutto o quasi tutto a colui che si può ben definire il “maestro” della gioventù neofascista: Julius Evola. Senza libri come Gli uomini e le rovine e Cavalcare la tigre non sarebbe stato possibile mantenere libero a destra uno spazio culturale. Ma Evola è un grande isolato, e la sua opera giace ormai alle sue spalle.

Occorrono nuove forze creatrici, o almeno un’opera di diffusione intelligente.
Vanno coltivati i domimi particolari della storia, della filosofia, della saggistica. Va tentato qualcosa sul piano dell’arte. Non per nulla Evola ha paragonato la tradizione a una vena che ha bisogno d’innumerevoli capillari per portare il sangue in tutto il corpo. (…) Uno dei motivi che più ricorrono sulla nostra stampa e nelle conversazioni del nostro ambiente è la condanna del massiccio allineamento a sinistra della cultura italiana. Questa condanna viene formulata in tono un po’ addolorato, un po’ sorpreso, quasi fosse innaturale che la cultura si trovi ormai schierata da quella parte mentre a destra s’incontra un vuoto quasi completo. Di solito si cerca di rendersi ragione di questo stato di cose con spiegazioni a buon mercato, quel tipo di spiegazioni che servono a tranquillizzare se stessi e permettono di restare alla superficie delle cose. Si dice – ad esempio – che la cultura è a sinistra perché là si trova la maggior quantità di danaro, di case editrici, di mezzi di propaganda. Si dice anche che basterebbe che il vento cambiasse perché molti “impegnati a sinistra” rivedessero il loro engagément. In tutto questo c’è del vero. Una cultura, o meglio, la base di lancio di cui una cultura ha bisogno, è anche organizzazione, danaro, propaganda. È indubbio che lo schiacciante predominio delle edizioni d’indirizzo marxista, del cinema socialcomunista, inviti all’engagément anche molti che – in clima diverso – sarebbero rimasti neutrali. Ma ciò non deve farci dimenticare la vera causa del predominio dell’egemonia ideologica della Sinistra. Esso risiede nel fatto che là esistono le condizioni per una cultura, esiste una concezione unitaria della vita materialistica, democratica, umanitaria, progressista. Questa visione del mondo e della vita può assumere sfumature diverse, può diventare radicalismo e comunismo, neoilluminismo e scientismo a sfondo psicoanalizzante, marxismo militante e cristianesimo post-conciliare d’estrazione “sociale”. Ma sempre ci si trova di fronte ad una visione unitaria dell’uomo, dei fini della storia e della società. Da questa comune concezione trae origine una massiccia produzione saggistica, storica, letteraria che può essere meschina e scadente, ma ha una sua logica, una sua intima coerenza. Questa logica e questa coerenza esercitano un fascino sempre crescente sulle persone colte. Non è un mistero per nessuno il fatto che un gran numero di docenti ed universitari è comunistizzato, e che la comunistizzazione del corpo insegnante dilaga con impressionante rapidità. E, tra i giovani che hanno l’abitudine di leggere, gli orientamenti di sinistra guadagnano terreno a vista d’occhio.

Dalla parte della Destra nulla di questo. Ci si aggira in un’atmosfera deprimente fatta di conservatorismo spicciolo e di perbenismo borghese. Si leggono articoli in cui si chiede che la cultura tenga maggior conto dei “valori patriottici”, della “morale” il tutto in una pittoresca confusione delle idee e dei linguaggi. A sinistra si sa bene quel che si vuole. Sia che si parli della nazionalizzazione dell’energia elettrica o dell’urbanistica, della storia d’Italia o della psicoanalisi, sempre si lavora a un fine determinato, alla diffusione di una certa mentalità, di una certa concezione della vita. A destra si brancola nell’incertezza, nell’imprecisione ideologica. Si è “patriottico-risorgimentali” e s’ignorano i foschi aspetti democratici e massonici che coesistettero nel Risorgimento con l’idea unitaria. Oppure si è per un “liberalismo nazionale” e si dimentica che il mercantilismo liberale e il nazionalismo libertario hanno contribuito potentemente a distruggere l’ordine europeo. O, ancora, si parla di “Stato nazionale del lavoro” e si dimentica che una repubblica italiana fondata sul lavoro l’abbiamo già – purtroppo – e che ridurre in questi termini la nostra alternativa significa soltanto abbassarsi al rango di socialdemocratici di complemento.

Forse gli uomini colti non sono meno numerosi a destra che a sinistra. Se si considera che la maggior parte dell’elettorato di destra è borghese, se ne deve dedurre che vi abbondano quelli che han fatto gli studi superiori e dovrebbero aver contratto una certa “abitudine a leggere”. Ma, mentre l’uomo di sinistra ha anche degli elementi di cultura di sinistra, e orecchia Marx, Freud, Salvemini, l’uomo di destra difficilmente possiede una coscienza culturale di destra. Egli non sospetta l’importanza di un Nietzsche nella critica della civiltà, non ha mai letto un romanzo di Jünger o di Drieu La Rochelle, ignora Il Tramonto dell’Occidente né dubita che la rivoluzione francese sia stata una grande pagina nella storia del progresso umano. Fin che si rimane nella cultura egli è un bravo liberale, magari un po’ nazionalista, risorgimentalista e patriota. (…) Basta poco ad accorgersi che se a destra non c’è una cultura ciò accade perché manca una vera idea della Destra, una visione del mondo qualitativa, aristocratica, agonistica, antidemocratica; una visione coerente al di sopra di certi interessi, di certe nostalgie e di certe oleografie politiche. (…) Con queste affermazioni che, come tutte le affermazioni veritiere, scandalizzeranno più d’uno, crediamo di aver posto il dito sulla piaga.

Che cosa dovrebbe propriamente significare «esser di Destra»?

1. Esser di Destra significa, in primo luogo, riconoscere il carattere sovvertitore dei movimenti scaturiti dalla rivoluzione francese, siano essi il liberalismo, o la democrazia o il socialismo.
2. Esser di Destra significa, in secondo luogo, vedere la natura decadente dei miti razionalistici, progressistici, materialistici che preparano l’avvento della civiltà plebea, il regno della quantità, la tirannia delle masse anonime e mostruose.
3. Esser di Destra significa in terzo luogo concepire lo Stato come una totalità organica dove i valori politici predominano sulle strutture economiche e dove il detto «a ciascuno il suo» non significa uguaglianza, ma equa disuguaglianza qualitativa.
4. Infine, esser di Destra significa accettare come propria quella spiritualità aristocratica, religiosa e guerriera che ha improntato di sé la civiltà europea, e — in nome di questa spiritualità e dei suoi valori — accettare la lotta contro la decadenza dell’Europa.

È interessante vedere in che misura questa coscienza di destra sia affiorata nel pensiero europeo contemporaneo. Esiste una tradizione antidemocratica che corre per tutto il secolo XIX e che — nelle formulazioni del primo decennio del XX — prepara da vicino il fascismo. La si può far cominciare con le Reflections on the revolution in France in cui Burke, per primo, smascherava la tragica farsa giacobina e ammoniva che «nessun paese può sopravvivere a lungo senza un corpo aristocratico di una specie o d’un’altra». In seguito, questa pubblicistica cercò di sostenere la Restaurazione con gli scritti dei romantici tedeschi e dei reazionari francesi. Si pensi agli aforismi di Novalis, col loro reazionarismo scintillante di novità e di rivoluzione («Burke hat ein revolutionäres Buch gegen die Revolution geschrieben»), alle suggestive e profetiche anticipazioni: «Ein grosses Fehler unserer Staaten ist, dass man den Staat zu wenig sieht… Liessen sich nicht Abzeichen und Uniformen durchaus einführen?». Si pensi a un Adam Müller, alla sua polemica contro l’atomismo liberale di Adam Smith, la contrapposizione di un’economia nazionale all’economia liberale. Ad un Gentz, consigliere di Metternich e segretario del Congresso di Vienna, ad un Gorres, a un Baader, allo stesso Schelling. Accanto a loro sta un Federico Schlegel con i suoi molteplici interessi, la rivista Europa, manifesto del reazionarismo europeo, l’esaltazione del Medioevo, i primi studi sulle origini indoeuropee. (…) Si pensi a un De Maistre, questo maestro della controrivoluzione che esaltava il boia come simbolo dell’ordine virile e positivo, al visconte De Bonald, a Chateaubriand, grande scrittore e politico reazionario, al radicalismo di un Donoso Cortes: «Vedo giungere il tempo delle negazioni assolute e delle affermazioni sovrane». Peraltro, la critica puramente reazionaria aveva dei limiti ben evidenti nella chiusura a quelle forze nazionali e borghesi che ambivano a fondare una nuova solidarietà di là dalle negazioni illuministiche. Arndt, Jahn, Fichte, ma anche l’Hegel de La filosofia del diritto appartengono all’orizzonte controrivoluzionario per la concezione nazional-solidaristica dello Stato, anche se non ne condividono il dogmatismo legittimistico. La chiusura alle forze nazionali (anche là dove, come in Germania, si trovano su posizioni antiliberali) è il limite della politica della Santa Alleanza. (…)

Gobineau pubblica nel 1853 il memorabile Essai sur l’inegalité des races humaìnes fondando l’idea di aristocrazia sui suoi fondamenti razziali. L’opera di Gobineau troverà una continuazione negli scritti dei tedeschi Clauss, Günther, Rosenberg, del francese Vacher de Lapouge, dell’inglese H. S. Chamberlain. Attraverso di essa il concetto di «stirpe», fondamentale per il nazionalismo etnico, viene strappato all’arbitrarietà dei diversi miti nazionali e ricondotto all’ideale nordico-indoeuropeo come misura oggettiva dell’ideale europeo. (…) Intanto, anche all’interno del nazionalismo si è operato un «cambiamento di segno». Già nelle formulazioni dei romantici tedeschi la nazione non era più la massa disarticolata, la giacobina nation, ma la società standisch, coi suoi corpi sociali, le sue tradizioni, la sua nobiltà. Una società — insegnava Federico Schlegel — è tanto più nazionale quanto più legata ai suoi costumi, al suo sangue, alle sue classi dirigenti, che ne rappresentano la continuità nella storia.

Alla fine del secolo, una rielaborazione del nazionalismo nello spirito del conservatorismo è compiuta. Maurras e Barrés in Francia, Oriani e Corradini in Italia, i pangermanisti e il «movimento giovanile» in Germania, Kipling e Rhodes in Inghilterra, han conferito all’idea nazionale un’impronta tradizionalistica e autoritaria. Il nuovo nazionalismo è essenzialmente un elemento dell’ordine.

Quali potrebbero essere i compiti di una destra culturale?
Nel campo della visione del mondo, la definizione di una concezione organica, e non meccanica, qualitativa e non quantitativa, una Ganzheitslehre per la quale esistono tutta una serie di punti di riferimento da Schelling fino a Othmar Spann. Ma anche taluni filoni dell’idealismo — depurati da una certa mitologia storicistica — possono costituire dei punti di riferimento contro il neomarxismo e il neoilluminismo. Dall’Hegel de La filosofia del diritto fino al miglior Gentile, taluni elementi possono essere utilizzati. Non da trascurarsi è la critica della scienza e della concezione matematica del cosmo, nella quale sia la critica al concetto della legge di natura di un Boutroux, e perfino l’élan vital di Bergson possono servire quali elementi di rottura per una concezione non matematica, ma volontaristica e spiritualistica dell’universo. Così, in questo dominio esistono dei punti di riferimento abbastanza numerosi. L’importante è rendersi conto che una visione del mondo dev’essere formulata anche in termini logici, e non solo mitici. (…)

Per ciò che riguarda la vera e propria scienza, sono innanzitutto da utilizzare le riserve formulate da grandi scienziati contemporanei come un Heisenberg e un Weizsäcker di fronte al metodo scientifico come strumento di conoscenza assoluta. È importante rendersi conto che la più moderna fisica non conosce una «materia» ma una serie d’ipotesi intorno a un quid concettualmente indefinibile.

Un secondo dominio è quello dell’antropologia. Antropologi come l’americano Jensen (The heritability of intelligence) e l’inglese Eysenck (Race, Intelligence and Education) hanno analizzato lo scarto intellettuale tra bianchi e neri dando risalto ai fattori ereditari. Un altro americano, Carleton S. Coon nel suo The origin of races — considerato il più importante studio sulle origini dell’uomo dopo quelli di Darwin — ha mostrato come le razze umane non abbiano un comune progenitore, ma abbiano superato separatamente la soglia dell’ominazione. Si tratta di affermazioni fondamentali, che i mass-media si sforzano di ignorare ma di cui una Destra non può disinteressarsi per le loro conseguenze anti-egualitarie. Ai margini della scienza si colloca uno degli argomenti oggi più discussi: l’ecologia. Ebbene, sarebbe assurdo che la Destra abbandonasse alle sinistre questo tema quando tutto il significato ultimo della sua battaglia s’identifica proprio con la conservazione delle differenze e delle peculiarità necessarie all’equilibrio spirituale del pianeta, conservazione di cui la protezione dell’ambiente naturale è una parte.

Quello della storia è uno dei campi più violentemente battuti dall’offensiva avversaria. Dimostrare che la Destra è contro «il senso della storia» è uno dei mezzi più a buon mercato per screditarla agli occhi di un’epoca pronta a scambiare il progresso tecnico col progresso in assoluto. È necessario innanzitutto far posto a una concezione non banalmente evolutiva della storia. Un Oswald Spengler, un Toynbee, un Günther, uno Altheim possono offrire dei punti di riferimento. Alla concezione della storia come un meccanico «progresso» va opposta una visione storica che conosce periodi di sviluppo e periodi d’involuzione. In genere, non esiste una storia dell’umanità, ma solo una storia delle differenti stirpi e civiltà, ad esempio — una storia dell’Europa come divenire delle stirpi indoeuropee attraverso i cicli preistorico, greco-romano e medievale-moderno. Questa concezione d’una «cultura» europea è anche quella che ci aiuta a comprendere la storia più recente. Tutta la storiografia di destra dall’800 in poi è stata scritta in chiave nazionale e nazionalistica. Questo schema non era metodologicamente errato, ma angusto. Esso mostrò i suoi limiti quando il fascismo si pose come movimento europeo per la ristrutturazione dell’intera civiltà europea. Un cenno particolare merita il dominio dell’arte. Qui non basta la chiarezza degli orientamenti ma occorre integrare le tesi «giuste» con quell’infallibilità del gusto che conferisce ad un sentimento del mondo nobiltà artistica. Che cos’è l’arte di destra? Non si tratta semplicemente di fare dei buoni romanzi o delle poesie diversi per il contenuto ma di esprimere una differente tensione stilistica. Vi sono libri di autori «impegnati» a destra in cui difficilmente si potrebbe rinvenire questa nuova dimensione. (…) Così i romanzi del norvegese Hamsun, in gran parte storie di paesani del Nord: pescatori, marinai, contadini. Anche qui, sia pure in tono minore, una ferma e misurata dignità e — al tempo stesso — un elemento mitico nelle vicende di queste anime semplici che lottano contro il destino nell’atmosfera magnetica del paesaggio boreale. Qui dobbiamo limitarci a un paio di esempi, i primi che ci vengono in mente. Ma ognuno può comprendere quello che abbiamo voluto dire e integrare questi accenni con la sua sensibilità e le sue conoscenze. Queste riflessioni valgono per tutte le arti: il contenuto passa in seconda linea di fronte alla forma. Si veda ad esempio la disinvoltura con cui il Fascismo si è appropriato dell’architettura moderna per esprimere un sentimento del mondo che «moderno» non è. Si veda l’architettura classico-moderna dell’Università di Roma o quella del Foro Mussolini. Si tratta di opere minori, ma di opere ben riuscite, e lo spirito che emana da quella scintillante geometria non è l’aridità dei grattacieli, ma la sostanza dura e lucente dell’anima antica: ordine, misura, forza, disciplina, chiarezza.

E veniamo ad un’arte minore, il cinema. Anche qui faremo alcune riflessioni sparse che possono servire a inquadrare il problema. Ognuno può vedere che L’assedio dell’Alcazar è un buon film di propaganda fascista. Ma, a rigore, con lo stesso linguaggio, si sarebbe potuta fare anche un’epopea antifascista. Vi sono invece talune inquadrature dell’ebreo comunista Eisenstein (abbiamo in mente alcuni fotogrammi di Ivan il Terribile) che, per il loro misticismo nazionalista e autoritario non possono non esser definite «di destra». Così è noto che Fritz Lang, il regista de I Nibelunghi, era un comunista convinto che abbandonò la Germania all’avvento di Hitler. Ma pochi films più del suo capolavoro riescono ad esprimere la Stimmung eroica e mitica propria della Germania nazista. E Goebbels dimostrò una notevole intelligenza quando pensò a lui per la regia del film del Congresso di Norimberga. Ancora un esempio: Ingmar Bergman. Quest’autore non può certo essere detto «fascista» (sebbene i comunisti una volta ci abbiano provato). Ma vi è in talune sue opere una potenza simbolica, che — trasportata dall’arte nel dominio sociale — non può non esercitare talune, precise suggestioni che gli avversari definirebbero volentieri «irrazionalistiche e fasciste». Abbiamo presenti alcune inquadrature de Il settimo sigillo. Si ricordino i paesaggi mitici e solenni, la presenza dell’invisibile nel cuore del visibile, il dramma dell’eroe. Qui non si vuol bandire nessun messaggio politico, ma l’impressione che lo spettatore ricava dall’insieme è tutt’altro che «democratica», «sociale» ed «umanistica». Naturalmente, anche qui chi decide è l’istinto. Chi è veramente di destra, chi è interiormente improntato da taluni valori, da un particolare ethos saprà immediatamente distinguere le impressioni artistiche che appartengono al suo mondo. Estetica viene da aisthànomai, un conoscere per sensazione immediata. Le considerazioni qui svolte non hanno carattere sistematico. Esse vogliono solo affrontare un problema, non definirlo. D’altronde, in questo campo bastano anche degli orientamenti generici. Di là da questi ognuno deve procedere con le sue conoscenze e le sue capacità.

Bastano pochi cenni per tracciare le linee di sviluppo di una cultura di destra. Ma quest’astratto orientamento incomincerà a prendere forma quando dei singoli si metteranno a scrivere e a fare.

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