La santa di Susà

di Marco Taufer

C’era una volta un giornalista a Trento.

Il 6 febbraio, sabato, del 1909 nella Trento devota alla Chiesa e fedele all’imperatore Francesco Giuseppe, arriva un uomo destinato a cambiare la storia. A riceverlo in stazione verso sera niente meno che Cesare Battisti, l’eroe irredentista, e sua moglie, Ernesta Bittanti. Lontano dal fare pubblicità, in quella sera stessa l’uomo destinato ad unire e rifondare quello che una volta era stato l’Impero Romano, o parte di esso, ossia il Duce d’Italia Benito Mussolini, ha cenato “Ai Tre Garofani”, osteria che si trovava, e  si trova tutt’ora, tra piazza Duomo e piazza Fiera.

Ma quello che ci interessa non è l’arrivo, e nemmeno la prima cena di Mussolini nella città di Trento, allora città dell’Impero Austro-Ungarico.

C’era una volta un giovane giornalista, un giovane idealista, un giovane sognatore che, come tutti i giovani, si è lasciato trasportare dalla curiosità e, perché no, dall’arroganza della gioventù. Questo giovane è arrivato a Trento con pochissimi soldi e tanta voglia di vincere. Ma subito si accorse che nella vecchia Trento Austro-Ungarica, credente e conservatrice del 1900 le sue pretese non sarebbero state facili da accontentare/risolvere.

Mussolini, come capo redattore del giornale di Battisti, immediatamente è entrato in contrasto con quello che allora era uno dei responsabili del giornale “Il Trentino”, ossia Alcide De Gasperi. Tra una bega e l’altra tra il giornale di Battisti e i giornali finanziati dalla Curia di Trento, le accuse personali a quel personaggio divenuto scomodo “alla pace” diventano ogni giorno più pesanti.

Mussolini, da bravo giornalista, ha ricavato una storia della quale l’esito della pubblicazione è stato decisivo per il fine del soggiorno del Duce a Trento. La storia viene intitolata “Santa di Susà”. La Santa di Susà è una cronaca per la quale c’è stata una ripercussione molto potente, ripresa da tutti i giornali socialisti di allora. Mussolini aveva deciso di intervistare una donna nell’odierna frazione di Susà. Quest’intervista fu clamorosa, e ha avuto una grande ripercussione in tutti i giornali italiani, soprattutto in quelli anti clericali. Raccontiamone la storia: un prete aveva sposato per finta, nel santuario della Madonna di Pinè, una donna molto giovane (e probabilmente molto bella). La faceva comparire in mezzo al vigneto dicendo che fosse la Madonna.

Mussolini, dopo che questa storia gli era giunta all’orecchio, è partito da Trento a piedi percorrendo il sentiero per Povo (che ancora oggi parte dalla Busa, supera la Fersina e arriva a Mesiano, per poi passare per Villa Gherta, al passo del Cimirlo, per scendere a Roncogno e poi raggiungere Pergine e quindi Susà), probabilmente perché, in quei giorni, i soldi non bastavano per il treno. L’intervista è stata pubblicata il 12 giugno 1909 su “Il Popolo”, al quale Mussolini descrive il paesaggio in una forma lirica:

«Come un pellegrino che muove ad una Tebaide lontana per espiare nella solitudine bianca e sconfinata del deserto i dolci peccati di un tempo, sono partito da Trento all’alba sotto un cielo nubiloso e minacciante la pioggia. La strada dispiega il suo nastro fra le colline superbe della vegetazione in fiore; più in alto i declivi silvestri delle montagne s’adombrano di un verde tenero e le fosse profonde hanno ormai perduto ogni traccia della lunga dominazione invernale. C’è nell’aria una gamma di suoni e di effluvi. Mano mano che mi avvicino alla meta, i miei pensieri, forse seguendo il moto delle mie gambe, diventano più gravi. Quando Susà, la mia Mecca, appare sotto la montagna rossa, un raggio di sole squarcia le nubi e il mio sguardo si bea in una magnifica panoramica visione.

Sopra Pergine, il castello erge le sue mura merlate, in cui le feritoie sembrano occhi socchiusi di un cadavere enorme; poco lungi, una croce altissima, tutta bianca profila le sue braccia gigantesche in atto di supremo comando; in fondo, il lago di Caldonazzo rude nella sua azzurra chiarità virgiliana mentre sulle ultime montagne verso l’Italia sbocciano i cirri bianchi e turgidi dell’ora mattinale. Vinto dalla commozione (ma anche dalla fatica) vorrei gridare con voce di mille toni la famosa ottava di Torquato, ma finisco per balbettare un verso di Gabriele D’Annunzio: O natura, o immensa sfinge, o mio eterno Amore!».

La Santa si chiamava Rosa Broll. Descrivendo l’intervistata: era una donna bassa, dai lineamenti secchi, occhietti chiari, grandi, vivaci. Le chiome sono grigie ma ricche, età presumibile 50 anni. Mussolini le domanda se ha avuto una storia con il conosciuto don Antonio Prudel. Rosa rispose di sì, nel 1874. Ha detto che aveva allora 16 anni, lui ne aveva 20, e che diventò la sua amante e poi sposa. Ha ammesso di aver celebrato il matrimonio alla Madonna di Pinè con le porte della chiesa chiusa, insieme a due testimoni, e che nessuno al mondo avrebbe mai dovuto conoscere il loro matrimonio segreto. Fu condotta in una canonica e presentata come una cugina dall’atto materno di don Prudel. Rosa Broll ha ammesso di aver avuto dei figli con il prete. Il primo maschietto fu abbandonato sulla porta della chiesa di Pergine, morto alcuni mesi dopo. Dopo un paio di aborti, don Prudel fu smascherato. Comunque, dopo tempo, sono stati offerti alla signora Broll alcuni benefici, in particolare dal parroco di S. Maria Maggiore di Trento, per evitare lo scandalo che coinvolgesse il nome del prete.

Mussolini, l’uomo ateo che si affermava un vero eretico, inneggiava a Giordano Bruno e chiamava i preti “pallide ombre del Medioevo”, non ha infierito sui particolari. Non lo fece nell’articolo e nemmeno nel libriccino, ma ha aperto un capitolo nuovo sul celibato del sacerdote. L’articolo e il libriccino si chiudono in questo modo: «La Santa è scomparsa senza lasciare dietro di sé quel sottile profumo d’ambrosia che, almeno un tempo, distingueva le divinità dai miseri mortali. Io raccolgo melanconicamente le cartelle su cui ho gettato poche righe e mi affretto al ritorno. Nei campi è l’ultimo fervore dell’opera quotidiana. Incontro dei contadini carichi di foglie, sono quelle del gelso, che si dovevano cogliere nel pomeriggio, per distribuirli perfettamente asciutti, nei boschi dei bacchi da seta».

Se Rosa Broll e compagno avessero interpretato un po’ meno alla lettera il motto biblico “Crescete e moltiplicatevi”, non ci sarebbe stato bisogno di abbandonare i bambini sulle porte delle chiese e di farsi processare a Trento. La bella fama di santità, consolidandosi, avrebbe valicato i monti e forse i mari. Don Prudel non doveva ignorare che la prima condizione per diventare santi è di essere sterili, se non casti.

Questo articolo è l’inizio della fine di Mussolini a Trento. Il Duce sfidò l’allora potente potere della Chiesa Cattolica trentina. Ha messo in chiaro una storia scomoda e vera, purtroppo non il primo e quantomeno l’ultimo episodio accaduto nelle istituzioni clericali. Dal processo a Rovereto il 26 settembre alla sua espulsione dal territorio austro-ungarico ad oggi, le cose non sono così cambiate. La stazione, il monumento a Dante, “Ai Tre Garofani” e il dominio clericale oggi esercitato dai vecchi democristiani eredi di Alcide De Gasperi ci danno l’impressione di vivere ancora in una società chiusa come quella del 1909, dove la soluzione di tutti i mali consisteva nell’espulsione del giovane, incuriosito e tenace giornalista.

(Frammenti del libro “Il compagno Mussolini” di Luigi Sardi)

Da La Spada di Damocle n. 5 – Dicembre 2015

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