di Francesco Barni
Il fascino del classico è sempre vivo nelle vecchie e soprattutto nelle nuove generazioni; ecco perché, tra i tanti titoli che la cinematografia mondiale ci regala dai primi del ‘900, non potevamo farci sfuggire l’occasione di parlare e farvi conoscere una delle pellicole più interessanti e genuine degli anni ‘30.
Grand Hotel, il film dove le vite delle persone non sono mai protagoniste ma, anzi, fanno da corollario alla struttura stessa del mitico e sfarzoso albergo che li ospita.
Ambientato agli sgoccioli della ben nota Repubblica di Weimar(1919-1933), la vicenda narrata prende vita a Berlino, dove, tra affari diplomatici, economie in bilico, carriere in declino e vite disilluse, si articola tutta la trama.
Vivremo due ore scarse in compagnia del bianco e nero che mantiene un fascino tutto particolare, di una colonna sonora in sottofondo sempre a metà tra il jazz ed il blues e della malinconia artistica di una Greta Garbo sempre all’altezza della parte in questione.
Il cast, forse quasi del tutto sconosciuto ai più giovani, è ciò che di più espressivo aveva da offrire l’ancora immaturo cinema americano. Oltre alla già citata Garbo, la quale interpreta una capricciosa Madame Grusinskaya, ballerina sulla via del tramonto, troviamo un imperturbabile John Barrymore nei panni del Barone Felix Von Geigern, abile seduttore ma ingenuo cospiratore al contempo. Da segnalare infine una conturbante Joan “belle caviglie” Crawford, seducente dattilografa piena di risorse e dai toni alquanto grintosi, almeno per quei tempi.
La staticità delle scene e la regia lievemente soporifera, passano totalmente in secondo piano grazie ad una trama sufficientemente originale e con un finale, non solo a sorpresa, ma che ci dà la possibilità di riflettere sulla caducità della vita e su quanto essa possa essere effimera.